ALPI 4000, UNA LUNGA PEDALATA DENTRO SE STESSI-UN VIAGGIO VERSO LE VETTE RESE MITICHE DAI GRANDI DELLA BICI, SENZA TEMPO, FREGANDOSENE DELLA FATICA- NON FARSI LA SOLITA DOMANDA: CHI ME LO FA FARE ?, MA SOLAMENTE : PERCHE’ NO!?
Ci sono i lustrini del Tour de France, quelli del Giro d’Italia, di Mondiali e di Milano-Sanremo, di Giri di Lombardia e Paris-Roubaix, storie di biciclette e di campioni, racconti che ogni tanto sembrano epica, ogni tanto sembrano tragedia e forse epica e tragedia lo sono davvero. Perché sono fatte della stessa pasta, narrano le gesta di persone fuori dal comune, anche se umane, forse troppo umane, a tal punto da essere preda delle stesse debolezze e delle stesse insicurezze di tutti, ma che una volta in bicicletta diventano speciali.
La bicicletta trasforma, confonde i confini del possibile, rende affascinante la fatica, cancella tutto quello che l’uomo ha creato per non farla. Eppure è proprio la fatica, il desiderio di superarla, la voglia di non mollare a mettere sulla strada tutte le altre biciclette, quelle che corrono e scorrono lontano dai lustrini delle grandi corse, delle televisioni con dirette ormai integrali, quelle che non sono mossi dalle gambe potenti di Peter Sagan, da quelle fantasiose di Vincenzo Nibali, da quelle vorticose di Chris Froome. Ci sono altre bici e altre storie che magari non fanno notizia perché sono storie normali. Storie che però ogni tanto diventano speciali, perché appassionate e quindi appassionanti. Perché proprio per questo spinte dall’amore e da nient’altro. Amore per la bicicletta, forse amore per la scoperta. Come le ruote di Arrigo Danti, veronese nato che era ancora Ottocento e che da Verona finì a Bolzano passando per le Dolomiti e da lì scese a Milano per raccontare della sua scoperta ad Armando Cougnet, il patron del Giro d’Italia. Era il 1935 e il Danti girovagò per montagne e pianure per mille chilometri prima di sentirsi dire dal numero uno della corsa rosa che l’idea di far passare il Giro per quelle montagne era fantastica, ma che era da un anno che ci stava lavorando. Ce ne vollero altri due prima che Gino Bartali le esplorò per primo e tra i Monti Pallidi, da Vittorio Veneto a Merano, e con un assolo di 107 chilometri conquistò il suo secondo Giro d’Italia consecutivo.
Storie del secolo scorso che si intrecciano con storie recenti, perché animate dalle stesse passioni, quella per la bicicletta e per l’esplorazione, e dagli stessi panorami, quelli montani, anche se questa volta solo alpini e non dolomitici. Quelle che hanno messo sulla sella gente diversa, proveniente da gran parte del continente europeo, attirando persone anche dall’altra parte del mondo, con l’unico desiderio di pedalare lungo gli oltre millecinquecento chilometri della Alpi 4000. Le chiamano randonnée, ossia il più antico modo di intendere la bicicletta, quella del viaggio, ossia prove senza classifica su lunghe distanze da affrontare in completa autonomia intramezzati da alcuni punti di controllo e firma. Un vagare da Bormio a Bormio sotto le vette alpine che superano i 4.000 metri, scalando le montagne sulle quali anche il ciclismo professionistico si è arrampicato alla ricerca di imprese da raccontare.
Immagine tratta dal sito alpi4000.it
L’Alpi 4000 è un’esplorazione montana, un viaggio tra cime mitiche e voglia di fregarsene della fatica. Un viaggio sull’arco alpino e dentro a se stessi, dove la domanda non è mai “chi me lo fa fare?”, ma solo e soltanto “perché no?”. Un viaggio che è un incrocio di storie, che magari vengono da un passato che neppure si è vissuto, ma che si porta dentro come i ricordi. Magari quella di un uomo che da Milano se ne era tornato in bicicletta al paese d’origine per un matrimonio, forse perché altro modo non c’era, forse perché era bello così, sicuramente fregandosene di tutto, anche del fatto di non sapere quasi pedalare. “Mio nonno riuscì a trovarne una in prestito, ci impiegò una settima ad arrivare, dormì in mezzo i campi perché i tempi erano quelli che erano, ma ci arrivò. Quella storia mi ha sempre affascinato tanto che dicevo sempre un giorno lo farò anch’io. E ho iniziato così. Rifacendo quel viaggio che aveva fatto mio nonno tanti anni prima. Da Milano al Friuli. Era il mio primo viaggio. E’ un po’ da lì che è iniziata la passione di viaggiare in bici”, racconta al Foglio Ivan Folli, che da quel viaggio ci ha preso gusto e ora con la bici viaggia, esplora, sulla bici ha scalato lo Stelvio, l’Iseran, ha percorso “1.520 chilometri in poco più di cinque giorni con più ventimila metri di dislivello e nove passi alpini sopra i duemila metri” concludendo la Alpi 4000 in meno di 140 ore, ottenendo così il Brevetto Randonneurs Mondiaux (BRM), il massimo per un viaggiatore in bicicetta.
“Non avevo mai fatto distanze così lunghe in così poco tempo, avevo fatto solo randonnée che al massimo raggiungevano i trecento chilometri e passare ai millecinquecento chilometri è stato un azzardo. Ma è andata bene, una soddisfazione incredibile”. Una faticaccia ma che una volta iniziata non può non essere finita, soprattutto a chi non “piace abbandonare le cose a metà”. E sì che mentre si lascia sotto i palmer oltre ventimila metri di dislivello è normale avere dei momenti di difficoltà, si scoramento. “A me sono capitati paradossalmente mentre pedalavo in pianura. Ero vicino a Pavia, a quindici chilometri da casa e quel giorno faceva un caldo bestiale, la temperatura superava i trentacinque gradi. Sarà stata la fatica, sarà stato il poco sonno ma non stavo benissimo, avevo un fastidio al ginocchio destro e mal di stomaco”. Ma anche un obbiettivo: arrivare a Bormio. “Avevo iniziato la randonnée con l’idea di arrivare all’arrivo per dedicare questo viaggio a una persona a me cara. Avevo una bandana che mi aveva regalato legata sul manubrio e quando mi sentivo scarico questo pezzo di stoffa mi dava la spinta per continuare”.
Un viaggio quello di Ivan Folli che è uguale a quello di chiunque sale su di una bicicletta. Perché una volta saliti non si scappa da quello che si sta facendo, perché è quello che si è scelto, si entra in un legame biunivoco che ti lega al mezzo e alla fatica e più questa sale più ci si fa forza, più si cerca di scappare dalla tentazione di desistere. Non è pazzia però, “è un gesto d’amore”, sintetizzò forse meglio di chiunque altro René Vietto, uno dei più grandi talenti del ciclismo francese che mai si è riuscito a vincere un Tour de France. Poco male, disse a fine carriera, “non aver vinto la Grande Boucle per un po’ è stato un cruccio, ma poi ripenso a quanto ho pedalato e quanto mi è piaciuto farlo che non posso che essere felice ed entusiasta di tutto quello che ho fatto. In bicicletta continuo ancor ora a trovare serenità”.
Serenità, la stessa di Ivan, mentre saliva verso lo Stelvio di notte. “Pedalare in mezzo al buio, vedere solo poche luci a valle e le stelle nel cielo sono qualcosa che ti riempie l’animo e ti svuota la testa, ti senti in pace con tutto. Ma forse il ricordo più bello di questa esperienza è quello di quando ho raggiunto la cima del Moncenisio, sempre di notte, e c’era il lago e la luna che si specchiava nell’acqua e guardando giù, verso la strada che avevo appena percorso, vedere le lucette tremolanti degli altri randonneurs che si arrampicavano verso la vetta. Questo è un ricordo che porterò sempre con me”.
Articolo apparso sul Foglio.it