NUOVO ROMANZO DI GIAMPAOLO PANSA DEDICATO ALLE DONNE ARRUOLATE NELLE BRIGATE DELLA R.S.I. E SOPRAVVISSUTE ALLA GUERRA- “Vennero rapate, picchiate, stuprate ed esibite come trofei per aver scelto la parte sbagliata della storia o per la sola colpa di essere fidanzate di soldati fascisti.“
Ai lettori il primo e il terzo capitolo del nuovo libro di Giampaolo Pansa, La repubblichina (Rizzoli, 240 pagine, 20 euro), da poco in libreria.
È stata la pipì ad avvisarmi che era tutto vero e non si trattava soltanto di un incubo. Di solito non mi scappava mai, il mio sistema idraulico, lo chiamerò così, era robusto e molto giovane. Del resto, avevo appena ventuno anni e mi ero sempre curata di fare molta attività fisica. Ma alla fine di aprile del 1945 non fui capace di trattenerla, la maledetta pipì. Mi inondò le mutandine e poi iniziò a scendere lungo le gambe. E quella sensazione calda, di bagnato che mi sporcava, è rimasta incancellabile per un tempo infinito.
Della faccenda si accorse subito il partigiano incaricato di raparmi. Ringhiò: «Vedo che hai paura, troia fascista.
Te la sei fatta addosso, come se tu fossi una vecchia puttana rimasta al servizio di Mussolini. Ma non devi temere nulla. Non ci metterò molto a tagliarti i capelli. E poi, vedo che li hai corti. Invece le altre fasciste sul palco insieme a te hanno delle capigliature da dive del cinema. Con loro l’ affare sarà più complicato e mi prenderò delle belle soddisfazioni!». Fu allora che mi resi conto di stare in piazza del Cavallo, nel centro della mia città, Casale Monferrato.
Insieme ad altre sette donne, mi avevano spinta su una specie di palcoscenico costruito alla buona: quattro assi di legno e quattro cavalletti che reggevano a fatica i nostri corpi. E la folla raccolta intorno era lì per godersi lo spettacolo della nostra punizione.
Un pensiero mi colpì. Duro come uno schiaffo in piena faccia. Quante madri e quanti padri dei miei alunni mi stavano guardando? Come avrei potuto tornare a scuola e riprendere a insegnare dopo quello che mi stavano facendo? E così, mentre ai miei piedi si era formata una piccola pozzanghera di pipì, anche i miei occhi si inondarono di lacrime.
PUBBLICO SUPPLIZIO
Era il 2 maggio 1945, il fascismo repubblicano aveva perso la guerra, Mussolini era stato assassinato, in compagnia della sua morosa, la Claretta Petacci. I gerarchi più importanti, a cominciare dal segretario del partito, Alessandro Pavolini, li avevano fucilati tutti insieme nei dintorni di Como. Adesso era venuto il momento di rifarsi sui repubblichini senza importanza e soprattutto sulle repubblichine come la sottoscritta. Il partigiano che doveva raparmi fu di parola e non ci mise molto.
Lavorava con un rasoio vecchio come il cucco e con una macchinetta per tosare le pecore. Non era di certo un barbiere professionale. Mi procurò sulla nuca qualche ferita che iniziò a sanguinare. Fu il sangue, insieme alle lacrime e alla pipì, a obbligarmi ad aprire gli occhi. La tosatura era la mia punizione. E questo solo fatto doveva consolarmi. Parecchi dei miei camerati li avevano condotti sulla riva del Po rinchiusi in gabbioni di legno. E lì erano stati uccisi uno dopo l’ altro con colpi di rivoltella alla nuca. Dunque potevo ritenermi fortunata.
Mentre vedevo cadere sulle assi sconnesse del palco le ciocche dei miei capelli, mi domandai: «Perché sono qui? Che cosa ho fatto per meritarmi questa punizione e le urla rabbiose della gente che gode nell’ assistere al nostro supplizio?». In fondo, ero soltanto una maestra elementare, con l’ unica colpa di aver preso la tessera del Partito fascista repubblicano, un obbligo per poter avere una supplenza in qualche scuola di periferia e iniziare a insegnare.
Io, Teresa Bianchi, detta Tere, classe 1924, una ragazza di appena ventuno anni, non avevo mai combattuto per la Repubblica sociale. Mi ero limitata a fare il mio dovere di maestra elementare. E quando il nuovo regime di Mussolini stava per crollare sotto l’ avanzata degli americani e degli inglesi, avevo deciso di nascondermi. Dunque non avrei dovuto essere messa in prigione e poi su quel palco.
Ma adesso c’ ero e non potevo sfuggire al castigo deciso dai vincitori.
Prima di venire rapata, mi era rimasto il tempo di dare un’ occhiata alla folla che circondava l’ impalcatura del nostro supplizio. E riconobbi qualcuno dei tanti che inveivano contro di noi. In gran parte erano maschi non più giovanissimi, quarantenni o cinquantenni. Vidi un giocatore professionale di bocce che frequentava il dopolavoro dell’ Eternit ed era sempre stato un fascista convinto.
Accanto a lui stava un portalettere delle Poste centrali, un altro tifoso di Mussolini.
Infine una sarta al di là dei quaranta, con la fama di essere una lesbica senza pudore.
Aveva tentato di mettere le mani addosso anche a me.
Spasimava di avermi nel suo letto. Una volta mi aveva fermata proprio in piazza del Cavallo. Per dirmi, senza ritegno: «Tere, bella gioia, perché non provi il piacere di coricarti con un’ altra femmina?».
FALSE ACCUSE
Nel frattempo, il partigiano tosatore concluse il suo lavoro, tra le urla di giubilo di chi apprezzava lo spettacolo.
Chiesi a me stessa come mi sentivo. Ma a parte la pipì e il bruciore delle ferite sulla testa, non sentivo niente. Non provavo paura perché sapevo di non aver fatto nulla che comportasse la pena di morte. Anzi, mi scoprivo calma e pensavo: «Prima o poi i tuoi capelli cresceranno di nuovo e sarai la bella ragazza di sempre». Uno dei vantaggi di avere ventuno anni è proprio questo. Finalmente lo spettacolo terminò. E noi, donnacce del fascio, ci riportarono al carcere di via Leardi.
Era una prigione che dall’ esterno conoscevo bene. Durante l’ anno scolastico, ci passavo di fronte tutte le mattine quando a piedi raggiungevo l’ istituto delle magistrali, che stava in piazza Battisti. E non mi ero mai domandata come fosse all’ interno, nello spazio riservato ai detenuti. In città esisteva un altro carcere, il Solaro, vicino al Po. Il Leardi era destinato a chi era in attesa di essere processato. L’ altro a chi era già stato condannato. Perché mi trovavo rinchiusa in cella?
Me lo domandavo fin dal primo momento, poiché io ero stata soltanto una spettatrice della guerra civile. Invece, verso la fine di quel conflitto orrendo, ero stata indicata alla polizia partigiana di Milano, dove mi trovavo per motivi privati, come una terrorista nera. Era un’ accusa falsa, e più avanti lo dimostrerò. Chi mi aveva denunciata era un comunista della mia città.
Di lui sapevo soltanto questo. Però mi ero ripromessa di scoprire il suo nome, non appena la guerra tra italiani si fosse conclusa per davvero. Eppure questa accusa infondata mi aveva fatto trasferire da Milano a Casale, nella prigione di via Leardi. Quella era la mia residenza e lì dovevo essere condotta. C’ ero arrivata il pomeriggio del 29 aprile, dopo un viaggio durato ore tra uno scenario di rovine. Strade sconvolte e quasi impercorribili. Macerie dovunque. Il ponte pedonale sul Po ridotto a un moncherino dai tanti bombardamenti aerei americani. Uno spettacolo deprimente. Infine la mia città, che mi appariva in miseria.
Il carcere di via Leardi era stracolmo di fascisti detenuti, in gran parte maschi. Tuttavia le femmine non erano poche. Una sezione, di appena tre celle, risultava zeppa di donne di ogni età. Si andava dalle sessantenni alle ventenni come me. La sporcizia dominava. Esisteva una sola doccia riservata a noi femmine e spesso non funzionava oppure distribuiva soltanto acqua fredda.
Dormivamo in sei per ogni cella, su letti a castello con materassi consumati e ridotti a pagliericci unti e bisunti. Le liti erano continue. E non c’ era nessuna solidarietà politica. Eppure eravamo tutte fasciste. E quasi tutte appartenute a qualche formazione militare della Repubblica sociale. Io ero l’ unica a non aver mai abbandonato una divisa. Per questo motivo venni subito odiata dalle altre donne incarcerate.
Non mi credevano quando spiegavo di essere una maestra elementare. Mi davano della bugiarda. Dicevano: «Non puoi essere soltanto un’ insegnante. Forse era una copertura per qualche ruolo nascosto nei servizi segreti del fascio repubblicano».
Poi la tosatura in piazza del Cavallo ci rese più solidali. Il ritorno nelle celle abolì ogni differenza tra di noi.
Compresi sino in fondo che la guerra civile era stata una trappola per le nostre esistenze così diverse. Si andava dalla vedova di un ufficiale delle Brigate nere ucciso dai partigiani a una maliarda che era stata l’ amante di un maggiore tedesco, alla redattrice del settimanale repubblicano della città. Infine a una quarantenne che aveva fatto il doppio gioco a vantaggio del fascio e si era infilata nel letto di qualche comandante partigiano troppo incauto.
Una settimana dopo ci lasciarono andare e ritornammo in libertà. Per nascondere le teste rapate chiedemmo degli stracci. Il mio puzzava di muffa, ma non esisteva di meglio. Dunque ritornai a casa, dove mi aspettavano papà e mamma, con il cranio coperto da quella pezza di stoffa sporca. Mi lavai la testa non so dire quante volte, mescolando il sangue raggrumato con tanto sapone. Guardandomi allo specchio, vidi qualche ciuffo di capelli qua e là. E obbligai mia madre a tagliarli. Poi mi difesi con un grande fazzoletto come se fosse un turbante. E mi stesi sul letto cercando di dormire. Mi rividi in piazza del Cavallo e venni assalita dai brividi, arrivavano in successione, come raffiche di mitraglia. Comunque la guerra era finita anche per me. […]
Ero appena stata rapata quando, una volta superato lo choc per quella punizione crudele, cominciai a riflettere sulla passione che avevo nutrito per il fascismo. E mi resi conto che, dopo tante sconfitte e delusioni, la mia adesione al Duce era ancora intatta. Se i partigiani che mi avevano punita in quel modo barbaro pensavano che avrei cambiato bandiera, si sbagliavano di grosso. Rimanevo sempre una ragazza del fascio, senza pentimenti né incertezze. Soprattutto a proposito della figura di Benito Mussolini.
Nel carcere di via Leardi, il partigiano che ci faceva la guardia un giorno ci raccontò sghignazzando lo scempio terribile di piazzale Loreto.
Con il cadavere del Duce appeso per i piedi e accanto a lui il corpo di Claretta Petacci.
Sempre quell’ idiota ci tenne a informarci che Claretta non indossava le mutandine poiché, prima di essere uccisa, era stata violentata da uno dei suoi boia. Soltanto una donna sconosciuta aveva mostrato il coraggio di chiuderle la gonna con una spilla da balia, evitandole quell’ ultimo oltraggio. Nell’ ascoltare inorridita quello che era accaduto alla signorina Petacci, domandai a me stessa in che modo mi sarei comportata se qualche ribelle mi avesse stuprata. Mi accorsi di essere invasa dalla paura e dallo schifo. Poi mi risposi: «Tenterei di difendermi con qualsiasi mezzo.
Ma alla fine non mi resterebbe che lasciarlo fare, offrendogli un corpo inerte come un cadavere».
Però i miei pensieri erano rivolti soprattutto alla figura di Benito Mussolini da vivo.
Mi era sempre apparso un padre inafferrabile, ma generoso, in grado di dedicarsi a ciascuno di noi.
Non ero una fanatica del Duce, anche se lo amavo come si poteva amare un genitore impossibile da avvicinare, ma comunque presente nella vita di tutti i fascisti. Tuttavia non appartenevo alla schiera delle donne che spasimavano di accoppiarsi con lui. Anche in una città piccola come la nostra, ne conoscevo parecchie, di ogni età e di condizioni sociali molto diverse l’ una dall’ altra. C’ era la quarantenne che dichiarava di essere pronta a fornicare con Mussolini e invidiava la Claretta Petacci.
Una nostra vicina di casa mi aveva confessato: «Ho sentito raccontare che Benito è un maschio davvero potente. Quando una bella donna bussa al suo studio di piazza Venezia, lui la fa entrare e la prende sul tappeto che sta di fronte alla scrivania. Vorrei donarmi al Duce nello stesso modo!». Avevo osservato: «Ma tu non sei sposata? Mi risulta di sì. Dunque hai un marito, fatti prendere da lui!». La vicina di casa mi aveva replicato: «Vuoi paragonare l’ uccello del Duce a quello di un marito qualunque? Non se ne parla neppure!».
Una signora che le voci del cortile descrivevano frigida come un blocco di ghiaccio mi confessò: «I maschi qualsiasi non mi mandano in calore. Soltanto Benito farebbe questo miracolo!». Infine c’ erano delle adolescenti attratte sessualmente dal proprio padre e immaginavano di sostituirlo con il capo del fascismo. Una di loro mi disse: «Vorrei essere al posto di Edda Mussolini, la figlia del Duce. Ma non credo che scoperebbe con lui.
Donna Rachele, la moglie del grande Benito, non esiterebbe ad ammazzarla!».
Non appartenevo a questo tipo di donne. Il mio unico interesse era tutto rivolto alla patria in guerra. Avevo iniziato a seguirne le sorti nel 1940, all’ età di 16 anni. L’ Italia si era gettata nel conflitto mondiale nel giugno di quell’ anno. Mi resi conto di essere felice di questa decisione. Anche se ero rammaricata che il Duce arrivasse secondo dopo Hitler. La Germania nazista era in guerra sin dal 1939 e il 14 giugno 1940 aveva conquistato Parigi. Questo autorizzava i serpentelli ebrei a sostenere che il fascismo avesse accoltellato la Francia alla schiena.
L’ Italia di quell’ anno aveva visto grandi manifestazioni di consenso per l’ inizio del conflitto. Anch’ io ero andata in piazza, indossando la divisa di giovane italiana: camicia bianca e gonna nera. Mi consideravo molto elegante. Avevo una figura slanciata e un bel volto da ragazza ardente.
Tanto da suscitare l’ attenzione di parecchi maschi presenti in piazza Castello, ben più adulti di me. Qualcuno mi aveva rivolto delle proposte un tantino oscene. Ma li avevo spediti a casa dalle mogli.
Nel 1941 avevo compiuto 17 anni ed ero orgogliosa della supremazia dell’ Asse, l’ alleanza fra l’ Italia fascista e la Germania nazista. Mussolini e Hitler stavano vincendo su tutti i fronti. L’ aviazione tedesca aveva iniziato a bombardare l’ Inghilterra. La flotta aerea del Reich era la più potente in Europa. Lo riconosceva lo stesso governo britannico. Le grandi città inglesi non erano in grado di difendersi. Gli mancavano persino i rifugi antiaerei. E i civili erano costretti a ripararsi nelle gallerie della metropolitana.
STRAGE SILENZIOSA
Il 16 aprile 1941 ci fu un’ ennesima incursione su Londra. Più di cinquecento bombardieri tedeschi, suddivisi in otto ondate, colpirono per otto ore la capitale inglese e uccisero 2.000 civili. Nonostante la censura imposta dal governo di Mussolini, sapevamo tutto di tutti. Dai grandi quotidiani qualcosa trapelava sempre. Anche la radio di regime, la potente Eiar, ci faceva comprendere che cosa stesse avvenendo. Infine c’ era l’ ascolto di Radio Londra, parlo della sezione italiana.
Era proibito e comportava sanzioni pesanti. Ma erano in tanti quelli che non badavano al divieto. Inoltre devo ricordare i Film Luce, i notiziari trasmessi nei cinema. Anche loro erano una fonte indiretta di notizie. Non mostravano mai i cadaveri degli inglesi, ma offrivano un ritratto della guerra dove l’ Italia fascista appariva vittoriosa, insieme alla Germania di Hitler. Che cosa pensavo di tutti questi morti? Dicevo ai miei genitori: «È la guerra!».
Mio padre mi rimbeccava: «Prima o poi gli inglesi inizieranno a bombardare l’ Italia. Non pensi a questo rischio, Tere?». Io alzavo le spalle: «Se avverrà, resisteremo. Le guerre rafforzano le nazioni». E lo dissi di nuovo quando nel dicembre del 1941, dopo l’ attacco giapponese a Pearl Harbor, anche gli Stati Uniti affiancarono la Gran Bretagna. Mi sentivo rassicurata da quello che vedevo nei Film Luce, proiettati in tutte le sale. E non avevo nessun dubbio su chi avrebbe vinto quel duello mondiale.
Andavo di continuo al cinema e confesso che il film in programmazione mi interessava meno del Luce. Di solito gli spettatori lo consideravano un intervallo noioso. Invece a me piaceva. Non mi sembravano pellicole di propaganda, anzi le consideravo una testimonianza vera della nostra guerra. Mi esaltavo o mi intristivo a seconda di quanto raccontavano.
Un giorno mi domandai che decisione avrei preso se fossi stata un maschio e non una ragazza. Non ebbi nessuna incertezza. Mi sarei arruolato subito, in un reparto di volontari destinato al fronte. Quando lo confessai a mio padre, lui si rabbuiò: «Non avresti paura di morire o di restare mutilata?». Gli replicai: «Penso di no. Le guerre sono sempre pericolose. Ma se la patria ti chiama, non si deve fingere di essere sordi alla sua richiesta di aiuto!».
Nel 1942 festeggiai il diciottesimo compleanno. A distanza di un anno, sulla scena di questa seconda guerra mondiale stava cambiando quasi tutto. Cominciai a rendermi conto di una verità terribile: l’ Italia non avrebbe mai vinto la guerra. Lo compresi dalle difficoltà incontrate in Russia dal corpo di spedizione italiana: l’ Armir, 230.000 giovani destinati a una sconfitta sicura all’ inizio del 1943. E tutto mi fu chiaro leggendo sul settimanale cittadino i necrologi dei tanti militari caduti su troppi fronti. Il giornale usciva il venerdì. I miei genitori non dimenticavano mai di acquistarlo.
Era un foglio povero, quattro pagine stampate su carta autarchica. Grigio, di un grigiore imposto dalla propaganda del regime e dalla censura di guerra. Compilato da sedicenti giornalisti che, in realtà, mi apparivano dei pigri scritturali agli ordini del fascio locale. Costoro mettevano insieme una serie di articoli che agli occhi di una ragazza fascista come ero io non valevano nulla: reticenti o bugiardi. Le loro cronache erano come specchi oscurati dalle menzogne o dai silenzi.
E dunque non riflettevano quasi nulla della vita di Casale e del Monferrato e degli esseri umani che vi abitavano.
Tranne quello che appariva in una sola pagina, dalle colonne riservate agli annunci funebri. Con i nomi, i volti e le storie dei caduti in guerra.
Avevo sentito dire che il regime intendeva vietare la pubblicazione di questi necrologi, merce proibita poiché rivelavano la verità sull’ Italia alle prese con un conflitto durissimo. Ma nessuna dittatura era perfetta, almeno in casa nostra.
Mio padre mi pregava di leggerli ad alta voce. Ecco la fine del colonnello comandante del Sesto Alpini, caduto sul fronte russo. Ecco il tenente medico di complemento del Primo Battaglione Guastatori, morto nel Mediterraneo, lo annunciano la moglie Elena con la piccola Carla.
Mio padre chiedeva: «Ma non era il medico condotto del paese dove sta la zia Angiolina? Un bravo dottore, simpatico e buono». Morto anche il maestro elementare della scuola rurale di Pontestura, caduto in Africa settentrionale. Morti undici soldati di un battaglione di Camicie nere, giovanotti dei paesi del Monferrato, ammazzati sul fronte greco albanese. E poi il ragazzo che lavorava nel primo garage della città, scomparso dentro un sommergibile al largo di Gibilterra. E ancora il figlio, il nipote, il fratello, il moroso di altre donne di Casale e del Monferrato.
Tutti presenti alle bandiere, tutti presenti nei ranghi, nomi buoni soltanto per la giornata degli eroi. Morti. Troppi morti. Sempre più morti. Destinati a decomporsi in terra e in polvere, in qualche parte del mondo, dove Mussolini aveva deciso che andassero a morire. In questo modo cominciai a schiarirmi le idee. Divennero del tutto chiare quando giunse il tempo delle privazioni. Iniziò a scarseggiare la gomma, non soltanto per le ruote delle automobili, ma anche per quelle delle biciclette. Poi toccò alla benzina, alla carta, compresa quella igienica. I quotidiani e i settimanali ridussero le pagine.
Sparirono i liquori, con un’ unica eccezione: il vino. Il tabacco per le sigarette diventò sempre più raro. Lo stesso il cuoio per le scarpe e la stoffa per gli abiti. Il caffè fu sostituito dall’ orzo. E il tesseramento annonario divenne sempre più rigido. Con l’ esplosione del mercato nero.
Ma in tutto questo bordello, io avevo un solo obiettivo: arrivare al diploma magistrale. Lo conquistai nel luglio del 1943, all’ età di diciannove anni. Mentre gli angloamericani sbarcavano in Sicilia. Un evento decisivo per la storia d’ Italia. Però nulla poteva distrarmi. Mi sentivo felice di essere diventata una maestra. E quasi non mi accorsi che nel frattempo l’ Italia, la nostra patria, era stata invasa dalle truppe del nemico.
Estratti dal libro di Giampaolo Pansa, ”la Repubblichina” (Rizzoli) pubblicati da ”la Verità”
https://www.youtube.com/watch?v=xlwqpKfBqpA