Uscito nel 1991, portato sugli schermi in un film diretto da Mary Harron, il romanzo di Bret Easton Ellis, letto oggi, conserva ancora la sua forza di ambivalente cinismo, di oscura e disturbante violenza. Una tragica allegoria del mondo a venire.
Scritto per fotogrammi, è animato di personaggi colti nei loro gesti quasi alla moviola, è un rivedere luoghi o sentire parole che, alla fine, ti accorgi sono sempre le stesse, anche quando i personaggi cambiano d’abito o di accessori -tutti di grandi firme, spesso italiane- minuziosamente elencati, quasi che gli abiti, le cravatte fossero più importanti di chi li indossa o della scena che Ellis intende descrivere.
Scrive del libro Ilaria Scarpiello su https://www.sololibri.net/ “Il primo pensiero che mi viene in mente, una volta finito di leggere “American Psycho” di Bret Easton Ellis, è che non provo né simpatia né alcun sentimento positivo nei confronti di alcun personaggio del romanzo. Anzi: Patrick Bateman, i suoi amici e le sue vittime si fanno odiare tutti. Una galleria di personaggi che speri vivamente siano solo frutto della fantasia dello scrittore, ma in fondo lo sai che non è così. Superficialità, spersonalizzazione, fragilità. Il maschilismo, agito e pensato, la fa da padrone, aiutato dalla presenza di personaggi femminili decisamente imbarazzanti. In ogni caso anche gli uomini non ne escono bene, con la differenza che la critica a loro rivolta è più celata, intellettuale, quindi pericolosa. Nel romanzo, si narrano momenti di vita anni Ottanta del ventisettenne Patrick Bateman, ovvero ristoranti, lavoro a Wall Street, donne da sedurre, palestra, cocaina, abiti costosi e omicidi brutali. La descrizione maniacale di ogni singolo capo d’abbigliamento firmato indossato dai personaggi è fastidiosa quanto le sanguinose scene di estrema violenza di cui Patrick è protagonista, alla continua ricerca di un’identità, un’integrazione psichica che non trova. I rapporti umani sono inesistenti, tragica conseguenza dell’assenza di una minima messa in discussione personale. Bret Easton Ellis ha scritto un libro magistrale, intelligentissimo e difficile. Lo stile di scrittura è tagliente quanto i coltelli con cui fa a pezzi le sue vittime su carta. Non sono completamente d’accordo con il giudizio che ne dà Giuseppe Culicchia, suo eccellente traduttore, sul retro della copertina: a mio avviso non è “un romanzo insieme terribile e comico”, ma terribile e triste. Di comico, fra quelle pagine, non ci trovo assolutamente nulla.”
Il romanzo inizia e finisce con due frasi: “Lasciate ogni speranza voi che entrate” e “Questa non è un’uscita”. Un inferno in cui si entra, ma da cui non si esce. Questo il mondo decritto da Ellis.
In mezzo troviamo una pagina, fra le rare, di riflessione che riassume il significato del romanzo: “Niente riusciva a darmi pace…. In me non albergava alcun sentimento chiaro e definito. Provavo solo, a fasi alterne, una smodata avidità e un totale disgusto. Avevo tutte le caratteristiche di un essere umano – carne, ossa, sangue, pelle, capelli- ma la mia spersonalizzazione era tanto intensa, era penetrata così in profondo, che non esisteva più in me la normale capacità di provare compassione. Io stavo semplicemente imitando la realtà; avevo una vaga somiglianza di un essere umano; … Qualcosa di orribile mi stava accadendo, ma non riuscivo a capirne il motivo; non riuscivo neppure a capire di cosa si trattasse. L’unica cosa che riusciva a calmarmi era il tintinnio dei cubetti di ghiaccio dentro un bicchiere di whisky.”