ROMA

24 Mag 2017 | 0 commenti

‘Roma, la città più italiana d’Italia’

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LIMES RIPERCORRE CON ANDREA RICCARDI DELLA COMUNITA’ SANT’EGIDIO LE TRASFORMAZIONI DI ROMA PAPALINA FINO AL DEGRADO E ALLA MARGINALITA’ DI OGGI-UN DESTINO CHE ROMA NON VUOLE E CHE NON MERITA 

LIMES Quanto è italiana Roma, quanto è romana l’Italia?

RICCARDI Fino al 1870 Roma era una città con un’identità molto ben definita, come Firenze, Bologna e qualsiasi altra città italiana – e sono tante – che vantano una lunga storia e tradizioni sedimentate. Forse, rispetto alle altre, l’Urbe era al contempo piccola e grande. Piccola perché demograficamente esigua: quando divenne capitale d’Italia, non aveva più di 200 mila abitanti, meno di Napoli e Milano. Ma anche, di conseguenza, geograficamente poco estesa e molto provinciale, o meglio comunitaria, sia da un punto di vista culturale che sociale. Era insomma un microcosmo circoscritto, con tratti fortemente caratterizzanti.


LIMES In che cosa stava la sua grandezza?

Andrea Riccardi, Comunità Sant Egidio

RICCARDI Nella presenza universalista del papato. Una presenza estremamente radicata, consustanziale alla città. In quanto vertice della Chiesa universale, il papato conferiva a Roma una dimensione che ne travalicava i confini. Ma in quanto istituzione prettamente romana, esso rientrava al contempo fra i tratti caratterizzanti della città. Era, quella tra Roma e la Chiesa, una relazione consumata e per certi aspetti ambivalente, come del resto è ancora oggi. Quando penso a questa relazione e più in generale al carattere della città che la incarna, mi viene sempre in mente il famoso aforisma dello storico ottocentesco Theodor Mommsen, secondo il quale «non si sta a Roma senza un’idea universale». Lo citai a Giovanni Paolo II nel corso di un’udienza e lui, entusiasta, espresse il vivo desiderio di conoscere questo Mommsen.


LIMES E lei cosa rispose?

RICCARDI Mi affidai all’ironia, dicendo che piuttosto ero io che contavo su di lui per poter conferire con lo storico.


LIMES Questa romanitas di cui parla era esclusivamente papalina o si avvaleva di altri apporti?

RICCARDI Era fortemente papalina, ma non solo. All’inizio Roma accoglieva clero prevalentemente dallo Stato pontificio, ma col tempo la quota di non romani nella curia è andata crescendo. L’osmosi tra Roma e la Chiesa aveva poi i suoi traitd’union fondamentali nei cardinali e nell’aristocrazia romana: un’aristocrazia affatto peculiare, perché fortemente papalina e priva di un effettivo potere politico, in cui l’elemento centroitalico era importante. L’elemento aristocratico (la cui parabola seguì quella del potere temporale del papa) e quello della prelatura erano i due canali principali attraverso cui la romanità si arricchiva di apporti esterni.


LIMES Poi che cosa è successo?

RICCARDI Dopo l’unificazione dell’Italia e lo spostamento della capitale da Firenze a Roma, nel 1871, inizia un processo di espansione e insieme di crisi di identità della città, che negli ultimi 140 anni è andata via via perdendo il proprio sapore locale, le proprie specificità e la propria omogeneità. E forse non poteva essere diversamente: dall’arrivo dei piemontesi in poi, Roma è stata oggetto di un incessante apporto demografico, che la portò a raddoppiare la sua popolazione in appena trent’anni. Durante il fascismo tornò al milione di abitanti, una cifra sconosciuta addirittura dall’epoca imperiale.


LIMES Cosa attraeva tutta questa gente?

RICCARDI La stessa molla che da sempre muove i flussi migratori di massa: il lavoro. Con i piemontesi Roma conosce il primo boom edilizio moderno, connesso all’imponente opera di modernizzazione e all’impianto dell’amministrazione centrale. I ministeri richiedono braccia per essere costruiti, ma anche e soprattutto impiegati per essere riempiti. Durante il fascismo, poi, l’estremo centralismo politico e la retorica propagandistica, che ha nei richiami alla grandezza dell’impero romano uno dei suoi cardini, esigono che Roma appaia come una capitale moderna, funzionale e imponente. Da qui l’ingente investimento del regime su Roma, che cambierà il volto di rioni storici (via dei Fori imperiali, via della Conciliazione), ma anche di vaste zone dell’agro a ridosso della città, edificate a creare nuovi quartieri dal nulla, come nel caso della Garbatella o del Tufello storico, nel quale confluirono in parte gli sfollati dei palazzi abbattuti per aprire via della Conciliazione.


LIMES Un cambiamento profondo, anche se forse il vero sconvolgimento epocale si è avuto nel secondo dopoguerra.

Roma, Garbatella

RICCARDI Confesso che sebbene il problema dei circa 7 mila nomadi, per lo più di etnia rom, censiti oggi a Roma sia serio, i ricorrenti isterismi che esso suscita mi fanno sorridere. Non posso infatti fare a meno di paragonare la supposta «invasione » odierna alle massicce ondate migratorie postbelliche che investirono la città e di cui, a quanto pare, si è persa memoria. Allora vale forse la pena ricordare che cos’era Roma negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta: di fatto, una città circondata da un anello di miseria. Al picco dell’immigrazione dal Mezzogiorno, Roma arrivò a contare oltre 100 mila baraccati, stante la carenza di alloggi. Baraccopoli enormi, vere e proprie favelas che cingevano la città, a volte appoggiandosi agli acquedotti di epoca romana, a volte insinuandosi nelle lingue di terra lasciate momentaneamente libere dal forsennato sviluppo edilizio, che seguiva in modo tentacolare le direttrici stradali. A Primavalle c’era chi vive­va ancora nelle case provvisorie di cartongesso costruite dal fascismo negli anni Trenta. Alle Olimpiadi del 1960 si tentò di mascherare i baraccati con i cartelloni pubblicitari, ma questa obliterazione temporanea durò il tempo dei Giochi. È soprattutto a quest’epoca, in cui Roma passò da 1 a quasi 3 milioni di abitanti, che faccio risalire lo snaturamento urbanistico della città, uno dei sintomi più tangibili della sua de-romanizzazione e progressiva italianizzazione. Insieme alla perdita del dialetto.


LIMES Sarebbe a dire che a Roma non si parla più romanesco?

RICCARDI L’accento romano dei nostri nonni, o ancora dei nostri padri, non esiste più, per non parlare del dialetto di un Trilussa o di un Belli. A Roma oggi si parla una sorta di romano contaminato dalle cadenze regionali, da quegli accenti che, ancora cinquant’anni fa, venivano spregiamente etichettati come «burini». Un romano infarcito di parole gergali che, da sole, non arrivano a configurare un dialetto vero e proprio.


LIMES Passi il dialetto, ma quanto a urbanistica qualche tratto caratterizzante Roma lo conserva. O no?

RICCARDI Sì e no. Esteticamente il centro storico – se intendiamo con questa accezione la vasta area compresa nelle Mura Aureliane – è ricco di simboli e rimandi tangibili alla romanità: basti pensare alla vasta area archeologica che comprende Foro, Palatino, Colosseo e Colle Oppio, summa della Roma imperiale. O al cosiddetto Tridente, l’area compresa tra piazza del Popolo e piazza Venezia, in cui si concentra il meglio della Roma barocca. Ma da un punto di vista funzionale, la Roma attuale è una grande periferia. Qui sta forse la frattura principale non solo con la Roma preunitaria, ma anche con quella prebellica. La vertiginosa espansione edilizia del secondo dopoguerra, di fatto mai arrestatasi, e la progressiva terziarizzazione dell’economia hanno comportato un duplice fenomeno: l’espansione della città e lo spopolamento del centro.


LIMES Ma il centro resta molto vissuto.

RICCARDI Vissuto o semplicemente frequentato? Oggi l’aspetto per me più preoccupante di Roma è lo scollamento del tessuto urbanistico e, di conseguenza, sociale: la stragrande maggioranza della popolazione vive in zone periferiche o semiperiferiche e nell’hinterland, mentre il centro, soprattutto negli ultimi vent’anni, ha seguito il «modello Venezia», diventando sempre più appannaggio di pochi danarosi (molti stranieri) e attività commerciali. I quartieri storici, come Trastevere o Testaccio, si sono andati svuotando. Oggi ci sono centinaia di migliaia di romani che passano gran parte del tempo senza vedere il centro, o comunque senza viverlo, magari attraversandolo in macchina, autobus o metropolitana negli spostamenti quotidiani. E alla pur sacrosanta urbanizzazione postbellica, tanto esecrata eppure indispensabile a dare un tetto a schiere di miserabili, ha fatto da sfondo un diffuso abusivismo che, nel tempo, è diventato un tratto antropologico della città, capace di permearne i comportamenti, rendendola spesso ingovernabile. Tanto per capirci: i camion in doppia fila davanti al Senato sarebbero inconcepibili di fronte a Westminster o all’Assemblée Nationale.


LIMES Tuttavia la Chiesa mantiene un solido presidio sul territorio, non foss’altro per la quantità di immobili che detiene, specialmente nelle zone centrali.

Quartiere Trastevere Roma

RICCARDI Ma la Chiesa e gli ordini religiosi non sono affatto esenti da questa tendenza. Negli ultimi decenni, complice il costante calo delle vocazioni e la conseguente sovrabbondanza di spazi onerosi da mantenere, numerosi immobili ecclesiastici del centro sono stati alienati o riconvertiti a scopi lontani da quelli originari, soprattutto in strutture recettive. Si perde il carattere di Roma con le istituzioni religiose convertite ad usi commerciali. Non ho dati precisi al riguardo, ma l’andazzo trova molte conferme empiriche. Personalmente ho assistito con un certo dispiacere alla sorte dello storico monastero borrominiano della Madonna dei Sette Dolori, in via Garibaldi, dove durante la guerra le monache nascosero decine di ebrei e che è stato trasformato in hotel. Sono operazioni logiche, ma contribuiscono allo svuotamento e allo snaturamento del centro storico.


LIMES Che ruolo ha giocato invece la Chiesa nella dispersione urbanistica di Roma, ovvero nella crescita delle periferie?

Quartiere Trastevere Roma

RICCARDI Un ruolo non secondario, ma per certi versi speculare a quello dei programmi edilizi novecenteschi. La Chiesa raccolse la sfida urbanistica del fascismo e successivamente cercò di tenere il passo con la frenesia edilizia postbellica. La prima mirava a dare lustro alla capitale per renderla degna delle ambizioni del regime. La seconda a tamponare un’emergenza abitativa che rischiava di fare di Roma una metropoli sfigurata, da Terzo Mondo. Nel primo caso, il Vaticano – specialmente dopo il concordato del 1929, che riconsegna al papa una sovranità salda e indiscussa, ancorché circoscritta – volle contrapporre alla grandeur imperiale fascista la visione di Roma come capitale spirituale. Se per Mussolini senza Roma i cristiani sarebbero rimasti una tra le tante sètte che popolavano l’infervorata Palestina, per la Chiesa la gloria dell’Urbe deriva dall’esser stata l’approdo di Pietro e Paolo. Nel secondo caso, la risposta ecclesiastica prese la forma di uno sforzo missionario volto a portare la Chiesa nelle periferie, che si espandevano a macchia d’olio.


LIMES In che cosa si traduce tutto ciò?

Street-art, murales di Tormarancia

RICCARDI In un massiccio investimento nella crescita di Roma. Ovvero nella costruzione, dagli anni Trenta a oggi, di una messe di chiese (se ne contano diverse centinaia), che rappresentano forse l’unico progetto urbanistico di dimensione cittadina pianificato e realizzato con costanza e continuità. A tal fine venne creata e poi rafforzata l’Opera della preservazione della fede e delle nuove chiese, presieduta dal cardinale Marchetti Selvaggiani. Quando assunse la presidenza Marchetti non era vicario; lo diverrà nel 1931. Ma dopo di lui e fino a Ruini, l’opera sarà sempre diretta dal cardinal vicario, a conferma della sua importanza. Inoltre, fino al nuovo concordato del 1984, la maggior parte di queste chiese sarà finanziata interamente o principalmente dal Vaticano, con uno sforzo economico che, da solo, dà la dimensione dell’enorme valenza attribuita dal papa a quest’opera di «ecclesizzazione» di Roma.


LIMES Eppure, questo sforzo di recupero della sfera spirituale cittadina poco o nulla ha potuto contro la progressiva periferizzazione di Roma. In che misura la Chiesa è cosciente di ciò?

RICCARDI In misura notevole, direi. Risale al 1974 il convegno promosso dal cardinal Poletti sui «mali di Roma», in cui si denunciava non solo il malessere sociale di una città che nel giro di una generazione aveva visto stravolta la sua fisionomia, ma anche i mali di una politica di Palazzo che mostrava già chiari i segni del tarlo che avrebbe roso da dentro la cosiddetta Prima Repubblica. Il portato di quel convegno fu grande. Ne scaturì uno sforzo volto a motivare socialmente i cattolici, ma anche la presa di coscienza della necessità di «romanizzare» la Chiesa di Roma. Sembra un paradosso, ma non lo è: di fatto, Roma non aveva mai avuto una «sua» chiesa, una vera cattedrale, ossia una chiesa cittadina, diocesana, centrale. Il vicariato era concepito come una congregazione della curia che gestiva Roma. La capitale d’Italia è forse l’unica grande città del cattolicesimo la cui cattedrale – San Giovanni – è posta ai margini del centro, a ridosso delle mura che ne cingono il nucleo storico. Il centro morale della Chiesa romana è San Pietro. Poletti affermò invece il bisogno della Chiesa romana di farsi anche Chiesa cittadina.


LIMES Emerge dunque la progressiva spersonalizzazione e italianizzazione di Roma. Ma non sarebbe più esatto dire «meridionalizzazione»? In fin dei conti, la maggior parte degli immigrati stabilitisi a Roma veniva dal Sud.

RICCARDI È vero, ma è un Sud particolare quello che ha riempito Roma. Se nell’immigrazione meridionale vi fosse stata una componente regionale preponderante, forse la città avrebbe assunto un carattere marcatamente campano o siciliano o pugliese. Ma il carattere eterogeneo dell’ondata migratoria ha fatto sì che nell’italianizzare Roma i nuovi arrivati stemperassero, mischiandole, le loro caratteristiche originarie. In un certo senso, l’unità del Sud si è fatta a Roma. La capitale non ha romanizzato chi ha accolto, nel senso che non ha trasferito intatti agli abitanti acquisiti i suoi tratti culturali originari, che sono invece andati scemando. Ma ha fatto da solvente delle culture «importate», dando vita nel tempo a una sorta di melting pot tiberino. Inoltre, se l’apporto meridionale è stato prevalente, non è mancato quello centro-settentrionale.


LIMES Che cosa resta, oggi, della profonda identificazione tra Roma e la Chiesa cattolica?

Quartiere Testaccio Roma

RICCARDI Dipende dall’ottica con cui si guarda alla città. In linea di massima, più ci si allontana da Roma più essa è percepita come un tutt’uno indistinto dal papa. È famosa la rievocazione del primo viaggio di Karol Wojtyła a Roma da seminarista, nel 1946: «Faticai a trovare la Roma cristiana», ammise. Il futuro pontefice cercava una città santa e si trovò davanti una città laica. Eppure proprio papa Wojtyła, il primo papa non italiano dopo 455 anni, fu uno dei più instancabili ambasciatori della romanitas. Ad esempio, nel suo viaggio in Burkina Faso non si presentò come papa, ma come «vescovo di Roma». Il suo stesso retroterra culturale facilitava tale identificazione: giunto a Roma, il suo rettore lo ammonì che avrebbe dovuto «imparare Roma, perché Roma è una lezione di universalità». Ma quella di Giovanni Paolo II era una romanità molto diversa da quella circoscritta del perio­do preunitario. Piuttosto, era la rivendicazione della leadership papale: una leadership che si esercitava su una Chiesa ormai internazionalizzata e sostanzialmente de-romanizzata nelle sue molteplici propaggini. E che pertanto aveva e ha nel vescovo di Roma un’importante figura di guida. Del resto la città si entusiasma relativamente per il papa, considerandolo una componente naturale sul suo paesaggio. Il suo rapporto con la Santa Sede ricalca un po’ quello con le istituzioni statali: Roma è una sede di rappresentanza e, come tale, sopporta oneri (molti) e onori di questa funzione, con il solido disincanto di chi ne ha viste tante.


LIMES Se quello di Wojtyła con Roma era un rapporto funzionale, non solo affettivo, quando possiamo collocare la fine del rapporto esclusivo, osmotico tra Roma e la Chiesa?

RICCARDI Volendo scegliere una data simbolica, potrebbe essere il duro inverno del 1943-44. In quel frangente drammatico, per un breve momento Pio XII torna a incarnare quasi totalmente l’anima di Roma. Papa Pacelli, romano di nascita ancor prima che per vocazione, è l’ultimo grande cantore della romanità sacra. Nel corso del suo pontificato compì un investimento ideale enorme nel tentativo di rendere Roma un nuovo «laboratorio di civiltà». Ma la Chiesa ormai guardava altrove e questo afflato romano non trovò una solida sponda al di là delle Mura Vaticane, anzi nemmeno nella curia. Del resto, la stessa classe dirigente della Chiesa si è andata via via de-romanizzando. Inizialmente, il Seminario Romano era composto dal Seminario Pio – che raccoglieva i seminaristi provenienti dagli Stati pontifici – e da quello Romano, composto da «romani di Roma». Nel 1565 i due seminari vennero fusi nel Pontificio Seminario Romano Maggiore. Dagli anni Venti Roma accoglierà un numero crescente di italiani, di tutte le provenienze geografiche. La componente romana nella prelatura è sempre presente, ma si andrà progressivamente assottigliando. Ultimi epigoni della romanità, negli anni Sessanta, furono cardinali come Tardini, Ottaviani e Angelini: il primo studiava il Belli, il secondo era un trasteverino doc e il terzo, classe 1916, è l’ultimo cardinale romano del collegio.

Basilica San Giovanni Roma


LIMES Insomma: l’Italia ha de-romanizzato Roma, ma Roma non ha romanizzato l’Italia, almeno non nella stessa misura. Dunque, qual è oggi la fisionomia della capitale?

RICCARDI Oggi probabilmente Roma è la città più italiana d’Italia. Questo vuol dire che, per certi aspetti, ha un carattere più sfuggente e indefinito di altre. Ma vuol dire anche che, quando polemizzano con Roma e l’attaccano, gli italiani polemizzano un po’ con se stessi, prendendo a bersaglio caratteristiche che, in misura variabile, condividono. Roma ladrona, truffaldina, sprecona, indolente, statalista, ministeriale: come ogni stereotipo, anche questi hanno un fondo di verità. Roma presenta senza dubbio tratti levantini, in parte ad essa connaturati, in parte acquisiti nel corso del Novecento. Di questo la città porta segni tangibili, dalla pulizia ai servizi pubblici. Ma quando se la prendono con Roma, spesso gli italiani – in modo più o meno consapevole – se la prendono con l’Italia tutta e dunque, in ultima analisi, con se stessi.


LIMES La percezione di Roma in Italia non sembra particolarmente positiva.

RICCARDI Infatti non lo è. Non credo lo sia mai stata. Da piccolo ho vissuto in Romagna e sentivo esattamente gli stessi discorsi anti-romani che fa oggi la Lega. Probabilmente si sarebbero sentite le stesse cose di Torino o Firenze, se fossero rimaste capitali. Ma forse il percepito carattere meridionale di Roma accentua questa ostilità. Così come l’accentua, o quanto meno non la argina, il fatto che Roma non si sia mai difesa veramente: piccarsi ma, alla fine, incassare e passare oltre è tipico della sua indole sorniona. Ma è anche frutto di un deficit d’orgoglio cittadino che trova mille espressioni e a cui non è estranea la progressiva diluzione dell’identità romana di cui abbiamo discusso sinora.

Roma, via delle Botteghe Oscure


LIMES Allarghiamo per un attimo lo sguardo al Mediterraneo, mare nostrum per gli antenati dei romani odierni. Ciò che sta avvenendo in Nordafrica può aiutare a risollevare la statura di Roma, come città e come capitale?

RICCARDI Può farlo, ma a condizione che Roma sia in grado di tornare a produrre una visione geopolitica. Qualcosa che questa città non ha fatto solo in epoche remote, ma ancora poco tempo fa, sebbene in modo per certi versi indotto. Per tutta la guerra fredda Roma è stata un importante crocevia internazionale. La politica italiana, bene o male, esprimeva orientamenti compiuti. Il Vaticano ricopriva un ruolo geopolitico fondamentale e il Partito comunista era un interlocutore privilegiato non solo di Mosca, ma anche della Santa Sede, che per parlare con la Cina o coi governi africani progressisti cercava qualche volta la mediazione di Botteghe Oscure. Insomma, Roma era un posto in cui si concepivano idee.


LIMES Può tornare a esserlo?

RICCARDI Sì, ma come tutte le capitali ha bisogno di un governo in grado di riportarla nei circuiti internazionali da cui è stata gradualmente espunta, negli ultimi anni, dal disperante provincialismo del nostro establishment. Sono profondamente convinto che Roma sia la città mediterranea per eccellenza: non tanto né solo geograficamente, ma anche e soprattutto geopoliticamente. Non si può fare la politica internazionale dell’Italia dalla Valtellina o da Agrigento. Roma deve dunque tornare a investire nel Mediterraneo. Il che vuol dire anzitutto liberarsi dalla comoda illusione, peraltro sonoramente smentita dai fatti, che basti parlare con il capo (Gheddafi, Ben Ali, Mubarak, Bouteflika o chi per loro) per parlare a un paese. I rapporti tra Stati sono fatti di commercio, cultura, borse di studio, religione e di tutto quanto valga a mettere in comunicazione le società, oltre che le leadership.


LIMES Ma in questa fase in cui in Italia le spinte centrifughe sembrano prevalere sulle ragioni dell’unità, c’è spazio per un ruolo importante di Roma?

RICCARDI Tutti noi italiani, romani e non, dobbiamo ringraziare Romolo e Remo, san Pietro e san Paolo e l’Eterno Architetto della storia per averci dato Roma. Siamo in una fase in cui le persone si illudono che i localismi esasperati costituiscano una valida difesa dalle insidie della globalizzazione, dell’immigrazione, della disoccupazione di massa e delle incursioni del capitale straniero. Ma questo è un tranquillante, non una cura. La risposta vera a queste sfide sta in una politica nazionale e internazionale intelligente, alla cui elaborazione e attuazione è indispensabile l’apporto di quella che, nel bene e nel male, resta la capitale del nostro paese.

Foro Romano


LIMES Se l’ipotesi federale dovesse concretizzarsi, sarebbe ancora possibile avere a Roma un laboratorio geopolitico?

RICCARDI Il federalismo non è un male in sé. Va però usato con cognizione di causa. Se l’esito finale dovesse essere un frazionamento economico e una parcellizzazione territoriale dello Stato, il grande rischio per Roma sarebbe quello di diventare il notaio spartitore tra le varie porzioni di territorio italiano. Una funzione che storicamente non le appartiene: Roma forse non è mai stata caput mundi, magari neppure caput Italiae, ma di certo è stata più di una mera esattrice. È stata, se vogliamo, un amministratore delegato. Invece oggi le si chiede di ridursi a spartitrice dello Stato che dovrebbe rappresentare, il che va contro la sua natura di capitale. Come va contro la natura di qualsiasi capitale. Città come Bruxelles e Vienna testimoniano di come, quando gli Stati e gli imperi si sfaldano, le loro capitali si vestono a lutto e sono condannate a restare vedove. Magari bellissime ed eleganti, ma sole e malinconiche. Nonostante lo stereotipo del romano buontempone, Roma un po’ mesta lo è già di suo, permeata com’è da una vena di praticità triste, sofferta. Ma l’abbandono no, è un destino che non vuole. E che non merita.

Conversazione con Andrea RICCARDI, fondatore della Comunità di Sant’Egidio.
a cura di Fabrizio Maronta, Lucio Caracciolo pubblicata in: L’ITALIA DOPO L’ITALIA – n°2 – 2011 LIMES (limesonline.com)
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