Una lunga intervista che rievoca gli anni a cavallo fra il dopoguerra e l’inizio degli anni ’90. Chi parla è Sandra Milo, una presenza controversa, mai completamente in primo piano, ma importante nella storia del cinema italiano. Una finta tonta, una Marilyn de noartri simpatica ed estroversa, che approfitta della veneranda età per rievocare quegli anni e i suoi protagonisti senza pudori o infingimenti. Un’attrice di successo suo malgrado, sembrerebbe, dal momento che, confessa al bravo Malcom Pagani, al cinema ha sempre “anteposto figli e famiglia”. Una donna che usa la indubbia seduzione per una emancipazione ante litteram, non solo personale, ma non ideologica, solamente come legittima difesa, per conquistare quei margini di libertà in cui i suoi tanti amori potessero prosperare. Da Fellinl a Craxi, dalla Dolce vita a Sigonella.
Sulla via degli 83 anni, Sandra Milo ricorda tutto. Amici, amanti, fratelli, conoscenti: “E non rimpiango niente perché il rimpianto è la cosa più insensata e inutile che esista. Al bivio fai una scelta, tiri una linea, percorri una strada al posto di un’altra. È chiaro che ogni decisione corrisponde a una rinuncia, ma la vita è fatta così. Sono comunque più le persone che ho abbandonato volontariamente di quelle che ho perso. Il mio motto è ‘alla prossima’. Prima o poi, ne sono certa, ci si incontrerà nuovamente”.
La risata sottile. La finta ingenuità come secondo abito: “Ero l’oca giuliva, la bella che doveva rimanere muta, l’appariscente bionda che non capiva niente, l’ornamento di un cinema italiano che, salvo rare eccezioni, è sempre stato un feudo maschile. Compresi in fretta dov’ero e perseguii il successo in maniera morbida, insinuante, sottile, senza fretta né ansie apparenti”.
Sandra Milo continua a recitare: “Anche due spettacoli nello stesso periodo. Ho una gran memoria e gli impresari si sorprendono ‘ma allora è brava’. Ho smesso di offendermi. Forse il mio destino è questo. Stupire ad ogni costo”.
Questione di esibizionismo?
Non c’è attore che non sia esibizionista, ma per non essere schiacciata, soprattutto all’inizio, servì più astuzia che volontà di mostrarsi.
Quello del cinema – diceva – era un microcosmo maschile.
A Cinecittà ero arrivata per affermarmi. Volevo farcela e per riuscire nell’intento mi mimetizzai. Alle mie colleghe sembravo leggera, vacua, inoffensiva. Ero pericolosa invece, ma se ne resero conto quando era troppo tardi.
Il primo a offrirle un’occasione fu Antonio Pietrangeli ne Lo scapolo.
Uno dei pochi insieme ad Antonioni ad avere il coraggio di mettere la donna in primo piano e a cercare di capirla veramente.
Tra il 1955 e il ‘61, lavorando con registi come Becker, Cayatte, Sautet, Steno e Rossellini, lei girò 18 film.
Mi sono divertita, anche se al cinema, per senso ancestrale del dovere ho sempre anteposto figli e famiglia. I mariti non volevano che recitassi, ogni tanto invece non andava a me. Con il cinema ho avuto un rapporto strano.
Erano tormentate anche le relazioni sentimentali. Molti matrimoni, tre figli, qualche visita di troppo in tribunale.
Il solo Moris Ergas, padre di una delle mie figlie e produttore de Il Generale della Rovere di Rossellini, mi intentò 44 cause.
Sempre con la regia di Rossellini, Ergas aveva finanziato anche Vanina Vanini. A Venezia, Festival del 1961, il pubblico si scatenò.
Con il ruolo di una principessa romana che si infatua di un carbonaro, quell’anno speravo di vincere la Coppa Volpi che avevo sfiorato l’anno prima con Adua e le compagne di Pietrangeli. In sala accadde l’impensabile. Rossellini, forse per precedenti dissidi con Ergas, era rimasto a casa. Mi trovai in prima linea. Il pubblico, imbarbarito, iniziò a fischiare a proiezione in corso. Ululati, urla, piedi sbattuti sul pavimento. Un circo. Io iniziai a piangere e non smisi più.
Enrico Lucherini inventò per lei il soprannome Canina Canini.
Il Corriere della Sera riprese l’idea e da allora, per lungo tempo, un tempo in cui i giornali contavano qualcosa e indirizzavano la pubblica opinione, mi chiamarono tutti così.
Conobbe l’insuccesso.
Tutto d’un fiato. Il giorno prima, mentre nuotavo davanti alla spiaggia dell’Excelsior, mi sentivo una regina infastidita dalla presenza degli altri bagnanti. Il giorno dopo ero un’appestata. Mi rinchiusi in casa a scrivere poesie. Lasciai il cinema. Ergas in fondo era contento. Nel ’56, all’epoca in cui avrei dovuto interpretare La risaia di Matarazzo, era arrivato a dire a Carlo Ponti che il ruolo della mondina non mi si addiceva perché soffrivo di tremendi reumatismi.
Poi arrivarono Fellini, l’occasione di 8 ½, l’Oscar per il miglior film straniero, la rivincita.
Credo di essermi innamorata di Fellini la prima volta che l’ho visto. Federico era speciale. Aveva una mente complessa, un occhio acuto capace di andare molto oltre le apparenze. Scopriva cose che gli altri ignoravano. Anche se poi affrontava i suoi temi con facilità, rendendoli comprensibili a tutti, non era facile capirlo né lui amava farsi leggere chiaramente. Ha mai ascoltato una sua intervista in tv?
Un paio.
Per farsi un’idea bastano e avanzano. Io credo di averle viste quasi tutte. Sono melodiose, armoniche, piacevoli. Una serie di parole bellissime e di frasi magnifiche che di lui non rivelano niente.
Dove si rivelava allora Fellini?
Nella lungimiranza. Federico raccontava quasi sempre la fine di un mondo, ma lo faceva in anticipo sugli altri. Cos’è La dolce vita se non la prefigurazione del tramonto definitivo della cultura e della bellezza? E cos’è Prova d’orchestra, uno dei suoi film più lucidi, se non l’annuncio di un caos immanente? Fellini sapeva dove saremmo finiti.
Aveva quindi ragione Arbasino? Lui ricorda una dolce vita molto diversa da quella tramandata ai contemporanei e un Moravia annoiato, intento a contare le macchine di passaggio in Via del Corso il sabato sera. In un’ora ne passarono sette.
Aveva torto. Federico immaginava quel che sarebbe accaduto, non fotografava la realtà. La trasfigurava. Per forza che a Via del corso, Roma appariva diversa da Via Veneto. La dolce vita era Via Veneto. Una strada diversa da tutte le altre. Forse la più brillante del mondo. Ungaretti, le star del cinema americano, la grande nobiltà al centro di un’epoca ancora splendida in cui se si possedeva il talento di annusare il futuro, ma solo in quel caso, si poteva sentire già l’odore di morte, di fine, di sipario tirato.
A presentarle Fellini fu Flaiano, uno che quel talento ce l’aveva: “Via Veneto è sempre più irriconoscibile” scriveva nel ’62.
Tra loro c’è stato un periodo di adorazione reciproca, poi le cose andarono come andarono e il sodalizio finì. Ci fu sicuramente l’esasperazione dovuta a un rapporto sperequato, plasticamente rappresentato dal viaggio americano in cui Federico viaggiò in prima ed Ennio in economica. Ma la ragione della loro rottura risiedeva altrove.
Dove?
In Fellini l’artista prevaleva talmente tanto sull’uomo che una volta scambiati sapere, saggezza e conoscenza con l’interlocutore, Federico considerava esaurito anche il rapporto. Era come se conoscendo fin troppo bene chi aveva davanti, gli mancasse all’improvviso l’alimento fondamentale dell’amicizia: la curiosità.
Era spietatezza?
Era necessità. Tutte le cose hanno una fine, ma a Federico ho visto chiudere da un giorno all’altro rapporti intensissimi. E ho visto soffrire in maniera straziante sia Sonego sia Flaiano. Sembravano amanti delusi. Erano persone che idealizzavano allo spasimo e poi si ritrovavano con la cenere in mano a chiedersi i perché della fine. Fellini era libero dal ricatto dei sentimenti. Se qualcuno lo tradiva, reagiva con il disprezzo senza mai concedersi il lusso della malinconia. Non soffriva né sentiva dolore. Lo cancellava. E ripartiva. Aveva sempre bisogno di stimoli nuovi, di passare da un’infatuazione intellettuale o amorosa a un’altra.
Lei con Fellini ha vissuto una storia d’amore clandestina per 17 anni.
Abbiamo dormito insieme negli alberghetti lividi, nelle abitazioni prestate dagli amici complici e anche a casa sua. Ma non ci siamo mai svegliati insieme. Ci incontravamo di notte e ci salutavamo prima dell’alba. Così, per 17 anni. Da un certo punto di vista era più comprensibile il suo rapporto con sua moglie che con me.
È stata gelosa di Fellini?
Qualche volta, non in maniera esagerata, anche per merito suo. Fellini mi raccontava sempre le sue avventure. Come le dicevo, era un uomo molto curioso del prossimo e delle donne. Magari era attratto da una ragazza che passava per strada, la seguiva e poi vabbè, non c’è bisogno di dire altro. Federico descriveva tutto. L’allegria, la scoperta, l’eccitazione, la delusione. Parlare delle proprie debolezze significa mettere l’altro sul tuo stesso piano. Quando invece racconti bugie a chi ami lo allontani da te e lo poni su un piano inferiore. Questo Fellini con me non l’ha mai fatto.
Lui viveva con Giulietta Masina. Lei era l’amante. Come ha fatto ad accettare il patto?
È una cosa per cui in effetti gli serbo un po’ di rancore, ma ho sempre accettato la situazione perché Federico era per me l’amore assoluto. Non ho mai giudicato. Si è vero: gli alberghetti, la precarietà, la paura di essere scoperti, ma anche la sensazione che se fossimo finiti a vivere insieme avremmo iniziato a litigare: “Dove vai stasera?” “Non mi porti?”, “Stai spendendo troppo”. Cose che avviliscono. Per me Fellini era unico e io avevo avuto le mie esperienze. Ero in grado di fare dei confronti. Sa qual è l’aspetto più anomalo di questa storia? Il più straordinario?
Qual è?
Che io l’abbia chiusa e lo abbia lasciato nel momento in cui mi ha detto “ora ho capito che ti amo, sei la donna della mia vita e voglio passare il tempo che mi resta con te”. Eravamo a Cinecittà e nel parlarmi, Federico covava uno strano presentimento: “Ho la sensazione che non ti vedrò più”.
Aveva capito?
Non lo so. So che io mi sono spaventata. Ho temuto che la realtà uccidesse la fantasia.
Avreste potuto rimanere amici.
Davvero crede a queste cose? Io non ci ho mai creduto. L’unico modo per conservare qualcosa che ancora oggi mi scuote era andare via per sempre. Se fossi rimasta a metà del guado o mi fossi limitata a rifiutare un progetto comune che non condividevo, avrei costretto entrambi allo spettacolo delle recriminazioni: “Tu non hai voluto” e delle giustificazioni: “L’ho fatto per noi”. Un po’ di miseria sarebbe entrata nelle nostra storia che la miseria non aveva mai conosciuto e l’avrebbe inquinata. Non ho voluto. Forse è stato l’atto più coraggioso della mia vita.
Lei con Fellini lavorò in 8 ½ e in Giulietta degli spiriti. Mancò invece il terzo capolavoro. In Amarcord avrebbe dovuto interpretare la Gradisca.
Mi ero sposata con un chirurgo e ormai da 8 anni mi ero ritirata dalle scene. Lui, Ottavio, di vedermi ancora attrice proprio non voleva saperne. Fellini mi telefonò per convocarmi a Cinecittà per un colloquio e all’improvviso rinacque la passione. Sicura di convincerlo in seguito, presi tempo con mio marito e raggiunsi Federico. Voleva costruire con me il personaggio. Mi raccontò che la Gradisca era una donna tutta terra, sangue, amore, sesso, tette sul bancone della tabaccheria e Lambrusco.
Le fece vedere un disegno?
Nel bozzetto aveva disegnato una donna bruna, formosa, con la frangia e i capelli neri lunghi un po’ raccolti da cui scendevano tanti boccoli neri sulle spalle. Io ero bionda. Quella Gradisca non mi convinceva. Lo aggredii: “A me sembra di legno, ‘sta Gradisca. Tu mi dici che è gioia, avidità, carne, sensualità, voglia di vivere, di ridere e di mangiare e poi me la fai con tutti ‘sti boccoli? Solo una donna sola e nevrotica perde tempo a farsi i boccoli. Una persona vera non ha tempo per queste cose e vive ben più intensamente. Cambiò idea, mi tagliarono i boccoli, e procedemmo spediti verso il provino. Indossavo un cappotto di vellutino rosso con la ciniglia nera: “dammi il tuo basco” gli dissi. Lui se lo tolse. Me lo diede. Sembrava fatta e invece tra me e Fellini si mise mio marito.
Non era sicura di convincerlo?
Mi sbagliavo. Fu molto chiaro: “Se fai Amarcord perdi i tuoi figli, non li vedi mai più e dirò al mondo intero che sei una sfasciafamiglie”. ‘Sta storia della sfasciafamiglie mi fece rinunciare al film. Mi vergognavo. A Fellini lo disse Vittoria Mancini, una mia amica. Lui mi scrisse una lettera stupenda, mi fece spedire 100 rose rosse a casa e poi si ammalò. Cristaldi, il produttore, era preoccupatissimo. Telefonò a Magali Noël che con Federico aveva già lavorato in due occasioni e la portò in proiezione: “Guarda Sandra e cerca di somigliarle. Se non trova una come lei, il film non si fa”. Lei, intelligentissima, si adattò. Trucco e movenze identiche. Fellini si convinse. Amarcord partì.
Finita l’avventura con Fellini, lei ebbe una relazione con Craxi.
Ci incontrammo e ballammo al Don Lisander. Primo approccio non memorabile. Quel ragazzone sudato non mi affascinava. Poi mi conquistò. Non ho mai più conosciuto nessuno che avesse un amore profondo per l’Italia come lui. È stato coraggioso, ha messo in riga gli americani a Sigonella, è morto esule. Oggi lo difendono tutti. Ma oggi è troppo tardi. Gli italiani sono come i bambini. Prima adorano il giocattolo nuovo, poi lo fanno a pezzi.
AI tempi del macabro scherzo telefonico in cui le annunciavano in diretta la falsa morte di suo figlio Ciro e delle sue urla: “Cirooo, Cirooo”, demolirono anche lei.
Altro esempio di deprecabile pecoronismo. All’inizio ebbi una solidarietà straordinaria, persino esagerata. Quel galantuomo di Cossiga venne addirittura a chiedermi scusa a nome di tutti gli italiani. Poi il vento cambiò, dissero che avevo orchestrato tutto per farmi pubblicità e piovvero insulti e derisione. Che le posso dire? Tra Blob e i programmi di Gregorio Paolini, almeno, è diventato un pezzo di storia della tv.
Sandra Milo non si stanca mai?
Ogni tanto penso che forse sì, morirò anch’io.
Malcom Pagani per ”il Fatto Quotidiano” del 27 sett. 2015