Quanto male puoi fare per fare il bene? In “SanPa” la domanda resta aperta
Scriptum: questo articolo contiene spoiler, ma non c’è il nome del colpevole. “SanPa”, la docuserie su San Patrignano di Netflix Italia, con la regia di Cosima Spender, il montaggio di Valerio Bonelli, nato da una grande idea di Gianluca Neri sviluppata insieme a Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, è un viaggio alle origini di quello che siamo e uno straordinario racconto sul bene e sul male. La storia di Vincenzo Muccioli, i suoi rapporti con i tossici, i media e la politica, si intrecciano alle testimonianze dirette disegnando la parabola eterna del potere che si ripete invariata in ogni luogo e in ogni epoca. L’aspetto più straordinario di “SanPa”, però, – e forse il tratto che distingue le docuserie da ogni altro tipo di narrazione – è che il racconto non si sviluppa come avviene nell’epica dividendo buoni e cattivi, ma sempre in bilico sull’abisso che separa (o tiene insieme) il bene e il male. Come dice Fabio Cantelli, l’ex ospite diventato capo ufficio stampa, il più intelligente e tormentato dei testimoni intervistati: “Ci sono regioni della vita in cui vita e morte sono così intrecciate che concetti come libertà, volontà, male, bene vanno rivisti e bisogna avere il coraggio di non usarli come assoluti”.
Racconta la regista Cosima Spender, che per Netflix aveva diretto anche “Palio”: “Questa è una storia che è sempre stata vista e raccontata in bianco e nero e invece non lo è per niente. Il film è anche un ritratto dell’Italia di quegli anni, racconta il ruolo cruciale dei media e della magistratura che più accusava Muccioli, più lo metteva sul piedistallo, e il rapporto con la politica che all’inizio non si fidava di lui, ma che per impotenza e convenienza finì per cedergli la responsabilità della lotta all’eroina. Al centro c’è il dilemma morale: quanto male puoi fare per fare il bene?”. Il docuserial spinge per sua natura a lasciare aperta la domanda, senza comprimerla tra condanna e assoluzione. Succede lo stesso in “Making a murderer” o nello straordinario “Wild Wild Country” su Osho. Valerio Bonelli, il montatore, che prima di “SanPa” ha montato “The Darkest Hour” di Joe Wright, spiega che la ragione è anche tecnica: “Per policy Netflix chiede che in un documentario ogni informazione sia supportata da tre fonti ufficiali. Altrimenti è diffamazione. E’ una cosa che limita la creatività, ma che spinge sull’orlo del burrone e fa sentire lo spettatore sempre sul precipizio tra male e bene”.
Per realizzare le cinque puntate di “SanPa”, gli autori hanno intervistato decine di testimoni – e ricevuto rifiuti, su tutti quelli di Gian Marco e Letizia Moratti che dagli anni Ottanta al 2011 donarono alla comunità 386 milioni di euro – e pescato in più 400 ore di video dell’archivio della comunità messe a disposizione da Andrea, il figlio di Muccioli.
San Patrignano nasce nel 1978 con un’idea semplice: accogliere gli eroinomani che affollavano le piazza d’Italia e di cui non si occupava nessuno, se non la galera. Gli anni Settanta si polverizzavano nel consumo di ogni sostanza che potesse procurare piacere e tacitare il dolore. Walter Delogu, l’autista e guardia del corpo armata diMuccioli, che finirà per denunciarlo, racconta nel film: “Io che ero di destra mi sono ritrovato insieme al comunista, tutti in fila a prendere la dose. Le città erano piene di zombie”. All’inizio San Patrignano era una comune hippy raccolta intorno a un uomo energico, affettuoso, simpatico, megalomane, autoritario. Andrea Delogu, la figlia di Walter, che nacque e crebbe a SanPa, ricorda un’infanzia felice: “Non avevo paura. Quando Muccioli arrivava con la jeep era semplicemente Dio che stava passando e ci salutava”.
In pochi anni San Patrignano esplode. Davanti ai cancelli centinaia di tossici aspettano di entrare dormendo in macchina per mesi. Muccioli accoglie tutti o almeno tutti quelli che può. Nel 1983 comincia il “processo delle catene”: Muccioli viene condannato in primo grado per sequestro e maltrattamenti, ma assolto in appello e in Cassazione. Ormai è famoso in tutta Italia. Il figlio Andrea all’epoca era un ragazzo: “Dopo il processo mio padre capì di essere diventato un simbolo. Aveva l’attenzione di una star del cinema”. E’ sempre in tv, da Costanzo, Enzo Biagi, Arrigo Levi, Gianni Minoli, Red Ronnie che si proclama “un soldato di Vincenzo”. Alla “Ruota della fortuna” Mike Bongiorno annuncia: “Gli italiani che dicono che Muccioli è innocente sono il 92 per cento! Un plebiscito!!!”. Davanti ai cancelli attendono migliaia di tossici, disposti a farsi incatenare. Vogliono avere da Muccioli la forza che non hanno e che non ha lo stato.
Con la televisione arrivano i politici che sfilano a San Patrignano in parata. Muccioli delega il potere, nomina custodi e capi sezione. La comunità diventa uno stato fondato su tanti piccoli regni. Nel 1992, al suo apice, è una città di 2.200 persone che lavorano gratis, con un allevamento di 79 cavalli da corsa, reparti sartoria, pellicceria, caseificio, tessitura, macelleria, il settore punitivo dove nel 1989 Roberto Maranzano era stato picchiato a morte e trasportato a Terzigno, vicino a Napoli, per simulare una fuga. Ricorda ancora Cantelli: “Vincenzo non era più in grado di prendersi cura di ognuno di noi come all’inizio. Si passò alla logica del controllo”. Come in ogni storia di ascesa e caduta, il delirio di onnipotenza e di persecuzione divampano. Muccioli costruisce un ospedale per i malati di Aids, un terzo degli ospiti, accettando qualunque ciarlatano si presentasse con l’idea di una cura.
Antonella De Stefani, un’altra ospite, racconta: “Era come una città, con la sua polizia e il suo carcere. Tanti sul comodino avevano l’immagine di Muccioli. Il primo anno non potevi telefonare e ricevere visite”. Muccioli dice alla folla: “Scrivete a chi e quanto volete ma ricordatevi che io le lettere le apro tutte”. Le regole erano molte ma non scritte, tramandate dal responsabile ai nuovi arrivati. Le punizioni rituali quotidiane: “C’erano il Ciocco e il Sole Piatti: ti dava due schiaffoni in faccia e sulle orecchie in mensa e ti sputtanava davanti a tutti”. Se scappavi scattava la chiusura. Le ragazze venivano rinchiuse in un grande tino, gli altri nella piccionaia o nella cassaforte della pellicceria. Per Paolo Negri, un altro ospite di SanPa, “la regola era: se sei un maschietto diventa un bravo soldato, se sei una femmina una casalinga. Era tutto lì: disciplina”.
Nel marzo 1989, mentre San Patrignano ospita un convegno sugli emendamenti alla Jervolino Vassalli, la legge sulla droga ispirata da Muccioli, si suicidano due ragazzi: Natalia Berla e Gabriele De Paola. Insieme all’omicidio Maranzano, queste due morti sono il buco nero intorno a cui la vita di Muccioli si condensa e in cui affonda la possibilità stessa di una morale della storia, di distinguere bene e male. Red Ronnie commenta nel film: “Un paese di 2.500 persone che in 30 anni (all’epoca erano 11, ndr) ha avuto un omicidio non è niente.
E’ un miracolo che non ne siano avvenuti di più”. Perché è vero che a San Patrignano il bene fu probabilmente più diffuso del male, anche se al male fu sempre impastato. Ma la morale non può essere una forma di contabilità. Ed è vero che il fine giustifica i mezzi, ma anche che alla fine i mezzi giustiziano il fine. L’unica morale possibile, allora, la pronuncia nel quinto e ultimo episodio della serie Fabio Cantelli, ufficio stampa e filosofo: “Il rapporto di SanPa con la verità è entrato in crisi nel momento in cui SanPa ha pensato che la sua immagine pubblica fosse più importante della sua verità interiore. Ma quella è una strada di perdizione, perdi la tua anima, perdi la tua verità, che è sempre sfuggente, molteplice, contraddittoria, però è la vita che è così. Se tu chiudi la porta a quella verità chiudi la porta alla vita, cioè smetti di evolverti”.
Articolo di Giacomo Papi per il Foglio Quotidiano
LA TESTIMONIANZA DI PIERO, IL FIGLIO DI PAOLO VILLAGGIO, OSPITE DI SANPATRI DAL 1987 AL 1990. “AI MAI ODIATO MUCCIOLI? TANTE VOLTE, L’HO ODIATO E GLI HO VOLUTO BENE”
“A 59 anni, Piero Villaggio oggi vive in un casale in provincia di Perugia, insieme alla moglie. E gestisce un’enoteca. Non ha figli. Ma se ne avesse avuto uno disperato com’era lei allora, lo avrebbe mandato da Muccioli? «Mi spiace dirlo però sì, non ho dubbi: lo avrei portato in quella comunità. Perché lui avrebbe fatto di tutto, per salvarlo».
“Ho visto le prime 3 puntate su Netflix: per ora, mi è sembrato abbastanza veritiero. Ma di quel posto hanno scelto di raccontare soprattutto la cupezza. Forse perché il pubblico è morboso: preferisce la violenza, alle storie belle. Però San Patrignano era pure sorrisi, giornate di sole. Fiori». Piero Villaggio — figlio di Paolo, l’attore genovese — aveva 22 anni: si faceva di eroina da sette, quando i genitori, dopo diversi tentativi falliti in cliniche italiane e svizzere, lo affidarono disperati alla comunità di Vincenzo Muccioli. «Era l’84. Io, un tossico. Mi hanno messo davanti a quel gigante col vocione e per stanchezza gli ho detto: facciamo come dici tu. In realtà pensavo che sarei scappato, per andare a drogarmi. È finita che sono rimasto fino all’87». “SanPa: luci e tenebre”. Alla Comunità dicono che la docu-serie racconti solo le ombre. «È difficile spiegare San Patrignano, se non l’hai vissuto. La ragione non sta solo da una parte: può essere bianca, nera o grigia, dipende dalla prospettiva. Glielo avevo detto, a quelli di Netflix. Mi avevano contattato, perché raccontassi tutto: va bene, ma prima spiegatemi esattamente cosa ne volete fare. Non li ho più sentiti».
“E allora di che colore è la ragione, a San Patrignano? «Volete sapere se ci sono state violenze, ingiustizie, bugie, dolore? Sì, molte. Ma non solo. Un tossico, se ha la roba, è tranquillo: però quando gli manca, non c’è più niente di normale. E tu, dalla tua prospettiva, non puoi raccontare, giudicare, spiegare. Non puoi, se non l’hai vissuto. San Patrignano era un mondo a parte: con gente piena di problemi, grossi problemi. E un uomo che quella gente voleva solo salvarla. A qualunque costo». Vincenzo Muccioli. «Un bestione di un metro e 90 per un quintale, un leone: faceva paura. Tirava certi schiaffoni. Ma aveva anche un carisma, una sensibilità, un’empatia incredibili: gli passavi accanto, e lui aveva già capito cosa ti girava nella testa. Quando sono entrato c’erano 180 ospiti, 3 anni dopo eravamo 600: gestiva tutto da solo. Ha commesso tanti errori, spesso ha esagerato: ma aveva ragione, credetemi”.
Stralcio dall’intervista di Massimo Calandri per La Repubblica