Picasso. Già, come si fa a prescinderne. Se non altro perché ha attraversato tutto il XX secolo, e poi per la produzione impressionante, per mole e qualità, delle opere che ci ha lasciate. Eppure, se dovessimo fare una sorta di hit parade, tolti i piacioni e maudit che fanno gara a sé, non credo che Picasso risulterebbe il preferito, o comunque all’altezza del posto di primo della classe fra i pittori del ‘900, che pure merita. Diciamo che Picasso resta oggi un genio fenomenale, gradito soprattutto a musei, critici militanti, mercanti d’arte, insomma agli addetti ai lavori. E’ come se (questa è la mia impressione, almeno) l’arte del catalano non riuscisse più a parlare, a coinvolgere, fosse emotivamente muta. La deformazione cubista della prospettiva e dei piani figura riassunti sincronicamente non bastano da soli a dare il senso di uno sperimentalismo in po’ fine a se stesso, cristallizzando la visione, rendendola inerte emotivamente (almeno a me). Qualcosa d’altro ci doveva essere, ma quale?
Ammetto che con Picasso ho sempre avuto qualche difficoltà ad entrare nella sua visione del mondo. Quando, alcuni anni fa, ho visitato il museo a lui intitolato al Marais a Parigi confesso che ero rimasto più coinvolto dai quadri da lui collezionati che non dai suoi. E non riuscivo a capire il perché. Poi mi è capitata fra le mani una vecchia pubblicazione Skira-Rcs, che si sofferma sul pittore e la sua opera fino al 1914, cioè fino alla vigilia della prima guerra mondiale, evento catastrofico che avrebbe posto fine alla Belle Époque e aperta la strada ai totalitarismi. Il volume è prefato da uno scritto di Alberto Moravia dal titolo: Esplosione della Maniera. Moravia è stato l’autore degli Indifferenti, romanzo che quando uscì fece molto parlare, ma oggi noioso e antiquato, sia nella scrittura che nei contenuti; egli non è stato un critico d’arte, e forse per questo, secondo me, ci azzecca.
Ecco cosa scriveva, costruendo un parallelismo fra Picasso e altri due artisti: lo scrittore Joyce e il musicista Strawinsky: “ Non volevano dirci nulla di se stessi, molto sull’arte e sul loro rapporto con l’arte… Indifferenti nei riguardi del mondo al quale rifiutavano ogni partecipazione che non fosse mediata dall’arte, questi tre artisti erano caratterizzati da una genialità di specie riflessa, critica, tecnica, contemplativa. Prima che l’animo del creatore, avevano l’occhio dell’artista, il fiuto del conoscitore, la mano dell’imitatore. Erano tre geni voraci e versatili… che avrebbero saputo spostare la loro opera dalla vita alla cultura. “… In altri termini sostituire il mondo al museo… essendo stati curatori di un immenso inventario , per fini di appropriazione e saccheggio” ( termini, questi, troppo duri, se presi alla lettera, e se solo si riflette che non c’è artista che non si ispiri all’opera di chi l’ha preceduto). Più specificatamente, secondo Moravia, Picasso avrebbe trattata tutta l’arte del passato come repertorio di stilizzazione manieristica: In Picasso l’autobiografia, attraverso lo sperimentalismo, diventa affermazione di vitalità, puro vitalismo [l’élan vital astorico] che è contemplazione della forma, forme prive di significato all’infuori di quello biologico”. Insomma, il culto del vitalismo sostituisce la visione del mondo, proprio quella che io cercavo, senza riuscire a trovarla.
Le conseguenze sono, secondo Moravia, che Picasso nelle sue opere (in particolare di questo periodo, definito dai critici “periodo blu” per l’uso monocromo di questo colore) non riesce a partecipare al dolore, alla disperazione, all’abbandono dei soggetti che disegna. Le figure restano devitalizzate, stilizzate, in definitiva inerti. Siamo nel “pietismo” non nella pietà. “I personaggi di Picasso, più che addolorati, recitano il dolore. Anche nella serie dei saltimbanchi, in cui la tavolozza si ravviva, l’indifferenza sperimentale e il manierismo di Picasso hanno la meglio su tutto, non essendo questi quadri che pretesto per “eleganti e prestigiosi contrappunti”. Picasso manierista? E perché no?
Nel 1906, con Les Demoiselles d’Avignon nasce il Cubismo, e secondo Moravia, Picasso si libera della pietà come pretesto manieristico, e la sua vitalità artistica si esprime fondendosi con la coscienza critica e storica. L’arte moderna, battezzata in un bordello, dopo avere riposato sconosciuta per circa 10 anni sulle cosce e i glutei di un gruppo di prostitute, vede finalmente la luce nel 1916. La prima guerra mondiale è finita e se ne prepara un’altra. Parecchi artisti sono morti in guerra o moriranno per le ferite riportate; fra questi ultimi, nel 1918, Apollinaire il primo critico, estimatore e amico di Picasso. Nel frattempo Picasso ci aveva fatto capire che la realtà è sempre rappresentazione della mente e non degli occhi. Che le vere emozioni stiano lì, siamo d’accordo; che secondo le regole, dettate da Cezanne, esse sulla tela debbano trasformarsi in sfere, coni o cilindri, confesso che faccio ancora oggi difficoltà ad accettarlo.
Ma, per fortuna o per disgrazia, l’arte contemporanea fa addirittura a meno di colori, pennelli o tele, basta la performance, il gesto. “Basta la parola”, diceva un altro genio, Antonio de Curtis, detto Totò. E a lui bisogna credere.
In copertina: Paul Cezanne: Mont Sainte Victoire