Un mestiere in cui smetti di appartenerti e spendi tutto quello che hai per il produttore, per il film e per il pubblico. Si vive una volta sola è una storia di amicizia e quando mi sono trovato a scrivere con Giovanni Veronesi ho pensato soprattutto a loro. Agli amici perduti. Ai rapporti che quando avevo vent’anni credevo fossero indissolubili. Eterni.
Tutti i battiti del suo cuore: «Da bradicardico, se stiamo ai freddi numeri, ho cinquanta pulsazioni al minuto. Ma ai tempi dei sudori improvvisi, dei giramenti di testa, dei formicolii sul labbro e dei frangenti in cui mi sembrava di morire da un momento all’altro, ne avevo 160». Era l’epoca dei primi successi: «In cui io, riservato, introverso e un po’ malinconico ero stato lanciato come un sasso da una mazzafionda al solo scopo di invitare tutti alla leggerezza e provocare la risata negli altri.
Compito terribile, al quale non ero preparato e una forma di violenza che mi costrinse, da peggior nemico di me stesso, a mettere in discussione il mio carattere». Per farsi forza, sostiene Carlo Verdone «ricorrevo a una frase che mi ripeteva sempre mia madre. “Si vive una volta sola” diceva e aveva ragione». Nel suo ventisettesimo film che recupera nel titolo il precetto materno e mette al centro della scena quattro persone incapaci di trovare fuori da corsie e operazioni una ricetta utile a guarire da insicurezze e nevrosi, Verdone, medico mancato, si traveste da dottore e guardandosi indietro si scopre diverso da ieri: «Potrei dire migliore».
Formuli una diagnosi.
«Oggi affronto ostacoli che non mi sarei mai immaginato di superare a trent’anni. E dalla maggior parte dei miei problemi sono guarito».
Che problemi erano?
«Per un timido la vita non è una passeggiata. Crede che fosse facile dover rispondere alle aspettative della gente o essere riconosciuti per strada da un giorno all’altro? Non sapevano neanche come mi chiamassi. “Lei è quello dei due cervi? Quello che alza gli occhi al cielo in tv?”».
La popolarità gliela restituì Non Stop di Enzo Trapani.
«Enzo, teorico dell’improvvisazione selvaggia, ci sequestrò per tre mesi a Torino in pieno inverno. Aveva facoltà di girare anche il sabato e io a Roma non riuscivo a tornare mai. Prima di andare in scena e dare sfogo ai miei sketch attraversavo atroci tormenti».
Che tipo di tormenti?
«Farò ridere? Parlerò bene? Risulterò simpatico? I miei colleghi d’avventura erano sciolti, disinvolti, tranquilli. Io passavo una notte in bianco dopo l’altra e riproponevo un repertorio che avevo sperimentato soltanto nei teatrini off».
Andò bene.
«Ma la televisione mi cambiò la vita e la popolarità rappresentò una tempesta interiore. Mi tremavano le gambe. Ero bloccato. Fragile. L’ansia mi divorava».
Come ne uscì?
«Grazie a Piero Bellanova, uno dei più autorevoli psicanalisti italiani. Con mio padre, di cui era amico, condivideva la passione per il futurismo e accettò di incontrarmi un paio di volte alla settimana. Andò subito al punto: “Carlo, qui non c’è niente da analizzare”, disse. “Il tuo corpo reagisce a uno stravolgimento e i farmaci non servono a niente: ti devi adattare al destino che cambia e piano piano il quadro si addolcirà”».
Messa così sembrerebbe semplice.
«Avevo una 127 bianca. L’avevo acquistata a 27 anni, nel 1978, con i risparmi di Non Stop nonostante il dirigente Rai di allora, Bruno Gambarotta, mi avesse vivamente sconsigliato di farlo: “Li spenda meglio i primi soldini che ha guadagnato, dell’auto non ha nessun bisogno, molto presto avrà chi la accompagnerà guidando al suo posto”».
I tempi non erano ancora maturi.
«All’epoca ero fidanzato con Gianna che sarebbe poi diventata mia moglie. Abitava a Vitinia, vicino a Ostia e io non andavo più a trovarla perché mi girava sempre più spesso la testa e avevo paura di svenire o di avere un infarto mentre guidavo. Lo raccontai a Bellanova e lui decise di sottopormi a delle sfide: “Dobbiamo andare alla radice del problema e devi metterti alla prova”».
In cosa consistevano le sfide di Bellanova?
«Non solo mi intimò di mettermi al volante, ma pretese di farmi allungare la strada passando per Ostia: “Prima di andarla a trovare arrivi sul lungomare, fai due giri della rotonda, respiri forte e poi riprendi il cammino”. Ostia a fine anni ’70 era più o meno il Bronx. “No professore” piagnucolai: “Ostia de notte no, la prego. Lei me vuò fa’ morì”. “Non morirai, ma se non farai come dico, da me non tornare proprio”. Andai. La prima volta stipai le tasche di gettoni e arrivai a Ostia in condizioni pietose. Telefonai a Gianna: “Sto malissimo, per favore, vienimi a prendere”. Riaccadde la stessa cosa almeno quattro volte e alla fine, pur ridotto uno straccio, riuscii a tornare a casa da solo. Esanime, ma vivo. Bellanova aveva capito tutto».
Cosa aveva capito?
«Che i problemi non si aggirano. Devi combatterli e puoi anche vincere. Il difficile è esserne consapevoli. Da quel giorno comunque non ho avuto più un solo attacco di panico e invece di imbottirmi di farmaci ho imparato a conoscere meglio me stesso».
Chi è Carlo Verdone?
«Sotto tanti aspetti, un uomo molto fortunato. È successo tutto quello che sognavo potesse succedere. Però poi se rifletto, non è vero che non abbia avuto momenti di grande difficoltà. Quando mia madre si è ammalata di una sindrome neurologica rara e spietata per me furono quattro anni di merda. Era la persona a cui volevo più bene al mondo, la vedevo sfiorire e il solo guardarla mi faceva disperare. Era arrivata a pesare 39 chili.
Con la tristezza e il cuore rotto, dovevo continuare a far ridere e la scissione era brutale. Durante il giorno giravo Acqua e sapone e al tramonto tornavo da lei. Nuotare tra Natasha Hovey, la Sora Lella, Padre Spinetti e il dolore reale fu un’esperienza tremenda. Stavo perdendo mia madre e mi ricordo che faticavo a perdonarmi perché desideravo morisse il prima possibile. Non si poteva vedere una persona ridotta così. Non si poteva accettare di sapere che soffrisse così tanto». (Qui la voce di Verdone si incrina e si affaccia la commozione, ndr).
Momenti tristi.
«Fu triste anche il momento della separazione. Il giorno in cui io e Gianna andammo in tribunale per le pratiche mi presentai senza legale. Il giudice era sconvolto: “Ma lei non ha un avvocato?”. Implicitamente mi stava dicendo: “Guardi che sua moglie vincerà su tutta la linea”.
Lo anticipai: “Decida lei, per me non è cambiato niente”. Fu brutto, ma Gianna si dimostrò speciale. Accettai ogni decisione senza fiatare e poi alla fine della liturgia lei si avvicinò: “Che fai quest’estate? Parti? Hai programmi?”. Allargai le braccia. “Cosa vuoi che faccia?”. “Io vado in Sardegna con i bambini, se non hai niente da fare vieni, loro saranno contenti”. Aveva già prenotato una stanza perché sapeva che le avrei detto di sì. Fu una cosa molto bella».
Perché finisce l’amore?
«Ah, vattelo a spiega’. Non lo so, dirlo è difficile. Non lo so, non lo so davvero. Il tempo gioca sicuramente la sua partita. Poi credo ci abbia messo un macigno la pesantezza del percorso che ho fatto e che sto tuttora facendo. Un mestiere in cui smetti di appartenerti e spendi tutto quello che hai per il produttore, per il film e per il pubblico.
Sposi loro. Sposi un lavoro. Sposi le aspettative. Sei sempre sotto esame, non sei libero e questo incide. Forse ero io a non riuscire più a dare tanto al rapporto o forse mi serviva la grande alleanza degli inizi. Fino a un certo punto resse, poi la distanza si allargò e probabilmente su certe cose non andavamo più d’accordo. Una consolazione però mi resta».
Quale?
«Pur nella tristezza della separazione io e Gianna siamo stati intelligenti. Ci siamo detti: “Va bene, non stiamo più insieme però facciamo sì che i nostri ragazzi non soffrano oltre misura”. Lo abbiamo fatto, credo e spero, nel migliore dei modi. Siamo stati uniti e assennati. I miei amici e le mie amiche che si sono separati sono ancora increduli: “Ma come ci siete riusciti? Io ho passato la vita a litigare, a far scrivere l’avvocato, a discutere di tutto e a litigare su ogni cosa”. Giulia e Paolo, i nostri figli, questa amarezza non l’hanno vissuta. Sono il nostro orgoglio. Hanno una dignità enorme, non hanno mai chiesto niente e non si sono mai sentiti i figli “di”. Se io o Gianna ci azzardavamo ad alzare il telefono per provare ad aiutarli non ci rivolgevano la parola per una settimana».
Quello che ci ha dato, l’ha sottratto alla vita privata?
«Assolutamente sì e l’ho sottratto anche ai miei amici. Si vive una volta sola è una storia di amicizia e quando mi sono trovato a scrivere con Giovanni Veronesi ho pensato soprattutto a loro. Agli amici perduti. Ai rapporti che quando avevo vent’anni credevo fossero indissolubili. Eterni.
L’amicizia era veramente importante. Condividevamo le stesse passioni: lo studio, il cineclub, la musica, le cantine umide in cui recitare. Eravamo un gruppetto di 6 o 7 persone e non facevamo altro che stare insieme. A volte qualcuno si fidanzava con la compagna di quello con il quale il rapporto era ormai logoro. Ma non c’era né gelosia né rabbia. Dicevi: “Vabbè, m’è andata male, però se è felice con lui va bene così”».
Poi che accade nell’amicizia?
«Irrompono le famiglie, il lavoro, i figli, la stanchezza. La tragedia è dai 30 a 40 anni e il primo segnale d’allarme suona quando getti la spugna, preferisci restare a casa e dici: “Non andiamo all’ultimo spettacolo, ve prego, che domattina me devo alza’ presto”. Non ce la fai più, ti mancano le energie e lasci per strada tante cose fino a quando, magicamente, a 50 anni la situazione migliora perché ti aggredisce uno sconfinato desiderio d’evasione.
Ti fa piacere parlare o andare a mangiare con qualcuno. Torni a confrontarti, a incontrarti, a scambiarti qualcosa. Finalmente, arrivato quasi a 70 anni, riesco a rivedere delle persone che avevo perso: non gente di cinema, per carità di dio. I miei veri amici, salvo pochissime eccezioni, non fanno parte del mio mondo. E mi creda, è bellissimo».
Lei 70 anni li compirà a novembre.
«Ogni tanto mi guardo allo specchio e mi ripeto: “Ma io ho davvero 70 anni?”. Ancora mi domando come sia stato possibile arrivarci e cosa mi sia davvero successo nella vita. Il primo biglietto di un mio spettacolo teatrale venne venduto nel 1977. Quasi 45 anni fa. E sto ancora lavorando».
Le sembra incredibile?
«Mi dico: “Ma non è che la mia vita non è altro che un sogno? Che magari non è successo niente?”. Sembra una battuta, ma me lo domando veramente».
Cosa significa avere 70 anni?
«Esteticamente non li dimostro però nel corpo ogni tanto si rompe qualcosa. È come una macchina antica dalla carrozzeria che sembra reggere e il cui motore a volte si blocca».
E la immalinconisce?
«Per niente. Non sono mica triste di andare verso i 70: l’arco della vita è quello perché mi dovrei disperare? Si disperavano altri attori, tutti morti depressi, Alberto Sordi compreso. Ringraziando dio ho figli, passioni, un percorso credo ineccepibile e molti ricordi magnifici. Mi chiedono: “Ma il giorno che lascerai il tuo mestiere, come farai?”. Rispondo che sarà un grandissimo giorno: la missione è stata compiuta nel migliore dei modi».
Bilanci?
«Ho fatto esattamente quello che dovevo. I personaggi, i film da protagonista, quelli corali come Si vive una volta sola».
Momenti nascosti, quasi sepolti?
«La prima volta che mi spinsi oltre Roma lo feci per andare all’Hop Frog di Viareggio. Era un circolo di estrema sinistra dove si erano esibiti Lucia Poli, Donato Sannini, il Patagruppo e dove io arrivavo con il mio prete di campagna, terrorizzato dall’accoglienza che avrei ricevuto. La gente mi guardava con aria truce, l’eskimo addosso e i volti ostili. Ero nervoso, andai a pisciare e accanto al cesso trovai una siringa: “Ma dove sono capitato?”, mi dissi. Andò bene, ma non era scontato. Niente è stato scontato».
Orgogli?
«Grande Grosso e Verdone. Di solito sono molto critico con me stesso e non faccio altro che dirmi: “Questa la dovevi di’ meglio, quest’altra avresti potuto girarla in modo diverso, questa scena è inutile e sarebbe stata da tagliare”. Ma sapevo che quello era il mio ultimo film da mattatore e mi permisi dei virtuosismi. Ci misi dentro personaggi cupi e raffinatissimi come il professor Cotti Borroni. Quando sei sicuro di te stesso puoi anche osare».
Che segno credi di aver lasciato?
«Non tanto il successo che è effimero, né il rapporto con il pubblico che è profondo, solido e non cambierà. Sono stato felice perché mi hanno capito. I miei film erano pieni di dettagli poetici e mi chiedevo sempre: “Ma la gente li apprezzerà?”. Mi ricordo una sera di tanti anni fa, era l’82, Borotalco era in sala da una settimana e tornavo a casa. A un certo punto mi accorgo che alcuni ragazzi mi inseguono in motorino. Mi fermo. “Ci faresti un autografo?”.
È notte, con me non ho niente. “Come si fa?”, dico. “Aspetti un attimo”, fa uno “io abito qui vicino, porto dei pezzi di carta con una penna”. Aspettiamo al freddo il suo ritorno e un ventenne mi dice: “Ma lei si rende conto di quello che ha fatto per noi?”, “Vuoi la verità? No”, “Ci ha regalato la leggerezza e una felicità interiore che neanche se la immagina”. Mi colpì tantissimo. “Ma guarda te”, mi dissi, “io che non lo volevo fare questo lavoro. Io che avevo paura di tutto”».
Quali erano le sue paure da bambino?
«Perdermi. Stare negli spazi grandi e smarrirmi. Non sapere come tornare dalle persone che mi volevano bene. Essere con mio padre in un posto, circondati dalla folla e improvvisamente non trovarlo più. Una volta mi accadde allo stadio e fu una cosa disperante. A un tratto, come in Un sacco bello, si sentì dall’altoparlante la voce di una poliziotta: “Il bambino Carlo Verdone è pregato di portarsi vicino all’ingresso della tribuna Montemario”. Quando rividi papà lo abbracciai fortissimo e gli disse: “Non mi lasciare mai più”. Non era la prima volta che mi perdevo».
Davvero?
«Andai per la prima volta a Siena, una città labirintica che mi colpiva per la sua severità, la sua bellezza austera e il suo mistero, che ero piccolissimo. Giocavo in via Di Vallepiatta e la mia palla cominciò a rotolare in discesa. Più la seguivo più non sapevo dove mi trovassi fino a quando non persi il senso dell’orientamento. Mi ritrovai a piangere ai bordi della strada e arrivò una signora: “Cittino? Che ti è successo? Dove sono i tuoi genitori?”. Mi riportò a casa e li vidi, come in una fotografia, tutti ad aspettarmi sull’uscio. Preoccupati. Stravolti. Sogno di perdermi ancora oggi. Incubi che ciclicamente tornano a farmi visita. Non so più dove sono e non riesco a trovare la via di uscita. Cerco mamma o papà, ma non ci sono. In un Luna Park, in un labirinto di vetro, non entrerei mai».
È una prefigurazione quasi psicanalitica del futuro. A un certo punto si cammina da soli e si rischia di perdersi.
«È vero. Ed è difficile da accettare. Non è un caso che tante paure le abbia cancellate, ma mi resta quella del giorno in cui me ne andrò. Non temo il dolore fisico, ma la disperazione dei miei figli. So che per loro sarà una catastrofe, mi atterrisce e così, ingenuamente, li preparo».
E loro?
«Si incazzano. L’altro giorno dico a Giulia: “Guarda, ho trovato queste 7 foto e questi 7 video, sono bellissimi. Un domani, quando non ci sarò più”. Non mi ha fatto neanche finire la frase: “ahhh, mo’ ricominci?”, “No Giulia, ascoltami, un domani, quando non ci sarò più, devi prendere questi video e queste foto e farci un documentario. Ci siamo io te, Paolo. È bellissimo”. “Papà”, ha alzato la voce, “adesso hai rotto veramente le palle”. Esorcizzano, però so che si preoccupano esattamente come capitava a me quando ero bambino, mia madre non tornava e io diventavo pazzo. Alla fine un po’ della mia ansia l’ho trasmessa anche a loro, soprattutto a Paolo. Se non rispondo al telefono, va subito in fibrillazione».
I suoi figli hanno poco più di 30 anni. L’età che aveva quando Lietta Tornabuoni la incontrò a casa di Sergio Leone. Disse che lei sembrava un burocrate cinquantenne: insicuro, bislacco, spaventato, oppresso dall’idea dell’affermazione.
«Ricordo bene quell’incontro, ma Lietta non comprese che per Leone io avevo una specie di devozione. Ero intimidito dalla sua presenza, ma non ne ero schiacciato. Dentro di me avevo le idee chiarissime. È stata la mia grande fortuna».
Che rapporto ha con la noia?
«Un rapporto meraviglioso. La noia è una carezza, una bella coperta che mi avvolge e mi fa ricaricare le batterie. Detesto quelle persone che affollano le estati di programmi assurdi saltando da Mykonos a Ibiza, perché “ti devi” divertire, “non puoi” annoiarti e se non ti diverti ti incazzi. Ma chi l’ha detto? A me d’estate piace non avere nessuno tra i piedi. Voglio stare da solo. È il periodo che mi aiuta a creare, a inventare, a riflettere. Se poi vogliamo parla’ di chi s’annoia perché non ha un cazzo da fa’ parliamo di tutt’altro». (Sorride)
L’ha visto il film di Zalone? Le è piaciuto? Si è annoiato?
«Ha fatto un tentativo: alcune cose funzionano, altre meno. Ma anche se da spettatore posso criticare, apprezzo lo sforzo, il coraggio e l’intenzione di fare qualcosa di lontano dai suoi precedenti. In fin dei conti pur essendo due persone completamente diverse e pur essendo la sua comicità molto lontana dalla mia, capisco le mille tensioni che ha avuto. Lo rispetto. Non è certo uno sciocco. Ha rischiato sapendo di rischiare».
E lei, con Si vive una volta sola ha rischiato?
«Temevo che l’interazione tra i personaggi si rivelasse un gioco sterile e senza spessore. Dal secondo giorno però è accaduto un miracolo e ho irrobustito un film che un regista meno esperto avrebbe potuto facilmente sbagliare e che invece ha una sua filosofia. Quindi, no, io e il film rischiamo poco. E lo dico per la prima volta. Faccio sempre mille “corna” e sono scaramantico perché so che l’esito di un film dipende dal pubblico e da quanti biglietti staccheremo, ma su quello che abbiamo fatto non ho mezzo rimpianto. È stata un’opera di concentrazione straordinaria tra 4 amici che sono felici di ritrovarsi anche fuori dal set. Non accade quasi mai: di solito, a film finito, ognuno va per la sua strada e chi si è visto si è visto».
Mi ha detto che il film parla di amicizia.
«Sono 4 medici. Una équipe chirurgica di prim’ordine che tra i propri pazienti ha addirittura il Papa. Tanto sono imperatori tra i ferri, tanto miserabili nel privato. Hanno una vita di una solitudine spaventosa e si fanno forza stando sempre insieme anche fuori dal lavoro. Ma tutta questa vicinanza, porta all’insofferenza e a una cattiveria feroce, da liceali. A un certo punto la dinamica subisce uno scossone e accadono cose sorprendenti: ahò, non è che stamo a parla’ di un film de Bergman, però sono fiducioso e contento del risultato».
C’è un’evoluzione. Prima dell’uscita di Un sacco bello, per la tensione, non riusciva neanche a dormire.
«Ero tesissimo. Non ci capii niente. Lo andai a vedere alla sesta settimana di programmazione, da clandestino. Mi vergognavo di vedermi sullo schermo. Oggi sono più equilibrato, più paziente, anche meno egoista. Vedo le cose in maniera più distaccata, cerco di non drammatizzare e sono sicuramente più sensibile ai problemi del prossimo, degli amici come dei giovani artisti, a differenza di tanti miei colleghi che fanno i liberali ma se la tirano un po’ troppo e che se poi gli chiedi una cosa è come se gli chiedessi chissà che. Poi rido e cerco di far ridere gli altri».
Perché?
«Perché ridere è fondamentale. Uscire la mattina e avere sempre il grugno, non fa bene».
Cosa fa quando sta da solo?
«Ero insonne, adesso cerco di dormire presto. Prima di abbandonarmi alla mia playlist, guardo Roma dall’alto. Sconfinata e buia perché Roma è una città tremendamente buia. Mi sembra sempre bella, ma immalinconita. Depressa».
Come mai?
«Perché ci siamo ridotti così? Perché non ci sono esempi, ma solo follie. Perché manca l’educazione civica e la burocrazia ha divorato tutto. Mancano i sacerdoti del bello. Ma dove cazzo sono i sacerdoti del bello? Senza una scuola che insegni ad amministrare questo patrimonio non ne usciremo».
E le dispiace?
«Moltissimo. Prima Roma era una grande città. Ora è solo una città grande».
Intervista di Malcom Pagani per Vanity Fair