SIMONA, UNA VITA IMPROVVISATA
Antonio Gnoli è capo redattore per le pagine culturali di La Repubblica. Persona eclettica, coltiva svariati interessi, per lo più incentrati su filosofia e letteratura. Fra i suoi pezzi migliori ci sono le interviste, che con puntuale scadenza, garbo e misura, realizza a personaggi della cultura, dello spettacolo, della scienza. Sono così tante oramai da potere stare in un libro, che gli consiglio vivamente di pubblicare. Gnoli sembra avere predilezione per i personaggi avviati sul viale del tramonto, con un grande avvenire dietro le spalle, che hanno dato il meglio di sé nella prima metà del secolo scorso, e che sembrano sottoporsi alle sue domande con docile accondiscendenza, quasi a volersi fare accompagnare sull’incerto sentiero di ricordi. Ne escono confessioni a cuore aperto che, con senso della misura, evitano di cadere nel patetico, restituiscono freschezza a gesta lontane, addolciscono rammarichi e giudizi, rivelando al lettore, che li ricorda nel pieno della popolarità, aspetti sorprendenti o aneddoti che svelano dimensioni d’animo e acutezza di sguardo insospettabili.
Questa volta tocca a Simona Marchini, gallerista in Roma per lascito familiare e attrice per caso, che ebbe una grande popolarità grazie al programma televisivo cult: Quelli della notte, ideato a diretto da Enzo Arbore nel lontano 1985.
Una vita complicata la sua, vissuta a caso, come confessa, ricca di soddisfazioni artistiche, assai meno nella sfera privata, come donna e moglie. Una donna volitiva e coraggiosa, che ricorda, anche nei toni di svampita di alcuni dei suoi personaggi, quelle donne parigine di metà ‘800, un po’ amanti, un po’ artiste, un po’ infelici.
Dopo l’intervista trovate un video con il trailer de La Mostra, spettacolo teatrale con regia di Gigi Proietti.
Persone che continuano a sorprenderci perché in qualche loro parte nascosta si rinnova la vita. Chiamateli segreti. O pulsioni. Sono le acque che dormono nella profondità dell’animo e basta un nonnulla perché si increspino e salgano fino a bagnare gesti, parole, ricordi. Avrei giurato che nulla di tutto questo sarebbe accaduto con Simona Marchini. Ogni cosa in lei sembra ordinata, lineare, gradevole.
Nell’ovvia constatazione di una intelligenza normata – in grado di sopravvivere con buonumore e frivola rassegnazione a questo tempo dell’astio e del risentimento – non avevo fatto caso all’inquietudine che il suo volto in certi momenti suggerisce. Che non è solo il sentimento di un tempo che passa e lascia inesorabile i suoi segni, ma il deposito di emozioni, sublimi e rovinose che lei ha vissuto ed esplorato.
Sediamo nello studiolo della sua galleria d’arte, la Nuova Pesa, è una mattina come tante. Le opere appese, i libri, il via vai di collaboratori rendono l’ambiente vivo. Chiedo da quanti anni è qui, in questo spazio di via del Corso a Roma: «Dal 1985. Prima la Galleria era altrove. Fu aperta nel 1959 da mio padre. Ti chiederai perché un costruttore, un palazzinaro come si dice a Roma, abbia preso questa decisione. Ebbene, la risposta è tutta nella assidua frequentazione di artisti e per l’amore che aveva per l’arte».
Chi erano gli artisti?
«Renzo Vespignani, Carla Accardi, Mafai, la scuola romana in genere, e poi ovviamente Guttuso».
Artisti di sinistra.
«Quasi tutti simpatizzavano per il Pci, un partito per mio padre e mio zio assolutamente imprescindibile. Papà era molto amico di Antonello Trombadori. Insieme avevano combattuto per la Resistenza. Rischiato la vita nella clandestinità. Mio nonno aveva ideali socialisti e li trasmise ai suoi figli. Era un piccolo costruttore che Dall’Umbria venne a Roma. È nata così la fortuna di questa famiglia».
Qualcuno vi ribattezzò “Calce e martello”.
«Mio padre e mio zio non hanno mai sputato sulla ricchezza. Non erano degli ipocriti. Sapevano che c’era il mercato, le regole capitaliste, il profitto. Ma tutto questo doveva ai loro occhi essere bilanciato dall’onestà, dal rispetto per l’altro e dalla cultura».
Non era un ossimoro che un imprenditore fosse insieme costruttore e comunista?
«Mia sorella e io siamo state, per questo, tartassate a scuola. Ci vivevano come strane creature il cui padre trafficava con il Pci. Ricordo i sorrisetti, le allusioni, le battute. Alla fine non ci facemmo più caso».
Con quali personaggi del partito tuo padre si vedeva?
«Con i massimi dirigenti. Venivano talvolta anche a cena: Scoccimarro, Amendola, Togliatti. Papà ci imponeva il silenzio. Vedevamo questi monumenti sedere a tavola con un certo disagio. Come se non fossero abituati alla mondanità. Tanta familiarità non deve sorprendere. I Marchini avevano contribuito alle sorti finanziarie del Pci: donato il palazzo delle Botteghe Oscure. Mio padre era tra quelli che avevano firmato l’atto fondativo dell’Unità».
Che idea avevi del comunismo?
«Un’idea sentimentale senza mai pensare di essere una militante. Senza un vero condizionamento ideologico, ma immaginando che una società più giusta era possibile ».
Quanto più giusta?
«Non penso ci sia un limite alla giustizia. Ma ci deve essere un limite all’ingiustizia. I proclami e le dichiarazioni contano ben poco se nella vita accetti che certe cose passino impunemente».
Come definiresti la tua vita?
«Dipende da quale punto la guardo. Professionalmente ho fatto tante cose. Spesso per caso e con successo. Ma non per questo posso dire che sia stato tutto liscio. È buffo. A una vita pubblica piena di soddisfazioni, non ha sempre corrisposto una vita privata altrettanto soddisfacente».
Cominciamo dal tuo lavoro di attrice.
«Che vuoi sapere?».
So che non provieni da una scuola di recitazione. Come ti sei improvvisata?
«Ero in montagna, in vacanza, piuttosto depressa da vicende personali, e la sera sferruzzando la maglia in albergo, vidi che tra gli ospiti c’erano Delia Scala e Don Lurio. Raccontai qualche storiella familiare che loro trovarono divertente. Fui segnalata in televisione e chiamata per un provino. Recitai la parte di una battona che lungo il raccordo anulare tiene la posta del cuore. Il giorno in cui, con Romolo Siena, guardammo il provino spuntò Renzo Arbore. Vide la recita di Iside la battona e si divertì. Se un giorno farò un programma televisivo ti chiamo, disse».
E ti chiamò?
«Mi telefonò per Quelli della notte. Nel frattempo, con un certo successo, avevo fatto altre cose in televisione e a teatro. Poi arrivò sta roba folle e improvvisata che inchiodò l’Italia televisiva per un intero mese. Ricordo che mio padre stava molto male. Passavo la mattina in clinica e la sera andavo in diretta. Nel programma interpretavo il ruolo di una telefonista ossequiosa e svagata ».
Ti hanno paragonato a Franca Valeri.
«Non pensavo assolutamente di imitarla. Sta sulla scena con stralunata eleganza; è una scrittrice formidabile che ha creato personaggi memorabili. Se lei è la torre io posso al più essere il passero. In questo senso forse ho avuto più libertà».
Più libertà perché?
«Ho fatto tantissime cose, nella convinzione che nessuna di queste mi dovesse condizionare più di tanto. La libertà è stato un frutto che ho assaporato tardi».
Cos’è che l’ha ritardata?
«Da impeccabile massaia, non pensavo minimamente
Come ti curasti?
«Mi rivolsi a un’analista junghiana. Una donna meravigliosa: Hélène Erba Tissot, un allieva di Ernst Bernhard. Era stata anche in India. Il riflesso orientale mi incuriosì. Mi regalò Autobiografia di uno yogi di Yogananda, un testo di filosofia vedica che aveva avuto molta influenza sui movimenti giovanili americani degli anni Sessanta».
Per quanto tempo l’hai frequentata?
«Un paio d’anni. Poi, un certo giorno, Hélène mi disse che avrei dovuto continuare il mio cammino da sola. “Vieni a trovarmi quando vuoi, ma da questo momento sei indipendente”, disse. Fui presa dal panico. Ma a poco a poco ricominciò la mia vita normale. Ripresi a studiare. Dopo il primo matrimonio avevo interrotto l’università. Mi mancavano pochi esami alla facoltà di lettere. Conobbi per caso Giacomo Debenedetti e cominciammo a frequentarci».
Debenedetti il grande critico?
«Proprio lui. Il rito era andare a trovarlo nella sede della Mondadori. Lui scendeva dall’ufficio di via Sicilia, passeggiavamo fino a via Veneto. Ci sedevamo a un bar. Io bevevo un tè e lui una vodka. Mi incoraggiava a riprendere gli studi. Mi chiedeva cosa hai letto oggi? Tacevo. Ero bloccata. Mi trattava con tenerezza e galanteria ».
C’era immagino una bella differenza di età.
«Non aveva neanche settant’anni. Io 26. Riuscì nell’intento di sbloccarmi e di farmi dare l’esame di lettere. Un giorno mi chiese di conoscere la mia bambina. Fu una buffa scena in un giardino pubblico. Sembravamo un padre e una figlia felici. Mi portò anche al Premio Strega. Poi, nell’ultima parte di quell’estate del 1966, partii e non lo rividi più».
Perché?
«Seppi che si era ammalato. Fu la famiglia a dirmelo quando provai a telefonargli. Morì nel gennaio dell’anno dopo. Andai al funerale. Naturalmente i familiari non sapevano chi fossi. Ero lì ai margini della cerimonia a piangere disperata. La persona cara, che avevo visto nei nostri brevi e fugaci incontri, non c’era più».
Poi arrivò il secondo marito.
«È una cosa nota il matrimonio con Franco Cordova giocatore della Roma».
Tuo padre aveva assunto la presidenza della squadra.
«Fu un periodo burrascoso. Erano gli anni in cui allenava Helenio Herrera che mio padre non stimava».
Non stimava perché? Molti lo consideravano un grande allenatore.
«Era un grande promoter di se stesso. Riuscì, con il presidente precedente, a ottenere un contratto di 250 milioni. Pretese che mio padre gli saldasse anche un contenzioso con il fisco di altri duecento milioni. Fu il motivo della rottura. La tifoseria si schierò con Herrera. Ricordo le lettere minacciose che ci arrivavano. Gli insulti. Insomma non si viveva più».
E Cordova?
«Mi ero innamorata di quest’uomo estraneo al mio mondo. Mi fece una corte lunga e serrata. Mi piaceva. Volevo dare una famiglia alla bambina e dunque ci sposammo. Siamo stati insieme per nove anni».
Passasti da un aristocratico a uno sportivo.
«Cordova era un uomo curioso, consapevole che il mondo del calcio non poteva essere tutto. Si mise a studiare, si iscrisse ad architettura. Sentivo che la mia presenza lo stimolava. Ma a lungo andare si dimostrò un uomo possessivo».
Era geloso di cosa?
«Avevo l’aria di essere sempre altrove. E questo probabilmente scatenò irritazione e possesso. È stato un piccolo inferno. Anche in questo caso ne uscii a pezzi».
Come ti risollevasti?
«Frequentai per un certo tempo una strana figura di medico omeopata, steineriano, che comprese il senso di vuoto che provavo. Fu una progressiva riconquista della mia coscienza. Le parole non esprimono fino in fondo quello che una persona prova. Ma avvertii forte in me una ritrovata semplicità. E credo sia stato il motivo che, a un certo punto, mi ha fatto innamorare nuovamente ».
Avevi avuto degli uomini in parte sbagliati. Cosa aspettavi?
«Non aspettavo nulla. Ma, come a volte accade, senza che la cercassi, trovai una persona straordinaria. Ci scegliemmo per ciò che eravamo, non per quello che avremmo voluto essere. Era uno scenografo. Un grande scenografo. Ne parlo al passato perché non c’è più».
Come si chiamava?
«Pier Luigi Samaritani. Ho donato le sue cose, l’archivio fotografico, i bozzetti di scena, alla Fondazione Cini di Venezia. Sono opere realizzate da un artista totale. Vivevamo in case separate. Anzi, lui era in Toscana e io a Roma. Pensai a un rapporto definitivo. Ma dopo un paio d’anni si ammalò. Quando seppi la notizia non volevo crederci e, poi, non sapevo come affrontarla. Caddi in una nuova disperazione».
Come reagisti?
«Chiesi ancora una volta consiglio al mio medico antroposofo. Mi disse: se tu accetti questa cosa vedrai che dono sarà per te».
Cos’era questo dono?
«Scegliere di dare. È stata l’esperienza più profonda della mia vita. Con Pier Luigi ci siamo amati, ma la cosa che trovo straordinaria è che mi ha dato un’autostima che credevo perduta per sempre. Ti sembrerà melenso, anche se è morto nel 1994, è come se il suo cuore continui a battere».
Quando dici autostima, intendi la consapevolezza di ciò che sei diventata?
«Intendo che non sono solo il personaggetto che fa ridere, anche se la comicità è una grande risorsa umana. E neppure la signora di buon cuore che pratica la solidarietà. Il lavoro con gli artisti, l’impegno in alcune scuole di periferia per insegnare canto e musica, sono state esperienze altrettanto importanti. Parto da una considerazione banale: se la gente fosse più bella – intendo la bellezza delle cose che si fanno bene – vivremmo tutti meglio».
Un buon programma. È come se tu ci fossi arrivata attraversando parecchi sensi di colpa.
«Credo nella fedeltà alle cose importanti che devono restare. E per restare devi saperle difendere. E non lo fai con il senso di colpa che, tra l’altro, non produce niente di nuovo e non aiuta l’altro. I sensi di colpa sono come la grandine. Devastano il raccolto. Vorrei andarmene da questa vita, beninteso il più tardi possibile, perdonandomi alcune cose».
Perdonandoti nel senso cattolico?
«Non nel senso di un accomodamento, o meglio di una remissione del peccato. No. Per una steineriana come me non esiste la colpa. E dunque non esiste il peccato. Esiste semmai l’esperienza lacerante di ciò che vivi. E il perdono, da questo punto di vista, è un lavoro profondo su se stessi. Lo smantellamento di certi schemi, di alcune certezze acquisite. Che non vuol dire rinuncia alla responsabilità, ma vivere senza risentimento né veleni quanto ti è accaduto. Non sono, come vedi, una donna serafica e distaccata. E nel momento in cui perdono a me certe cose, so di perdonarle anche agli altri».
Intervista a cura di Antonio Gnoli, apparsa su La Repubblica del 18.4.2016
https://www.youtube.com/watch?v=rdaJE-7ZQsI