SORDI MEMORIAL

22 Set 2020 | 0 commenti

Passeggiata nella dimora-museo di piazzale Numa Pompilio in Roma. Le reliquie, gli amori e i misteri che riempirono la vita di un mito, l’Albertone nazionale.

Passavo e vedevo questa casa”, dice Albertone a Mike Bongiorno, in uno dei tanti video d’epoca esposti. Mike, con l’entusiasmo americano: “E’ una villa molto antica! Esisteva da quando lei era già bambino!”. Sordi, sordianamente: “Lo credevo un convento di frati”. Perché le tapparelle erano sempre chiuse. E sempre rimarranno, nella casa un po’ Chateau Marmont un po’ Vittoriale degli italiani che finalmente ha aperto al pubblico a Roma, in una grande mostra già visitatissima che casca a fagiolo con le celebrazioni per Roma Capitale (che sarebbero l’anno prossimo ma la Raggi si è portata avanti).


La villa di piazzale Numa Pompilio, dove Alberto Sordi visse dal 1958 fino alla sua morte, nel 2003 (@ Reporters Associati & Archivi Srl )

Le tapparelle leggendarie chiuse, anzi socchiuse, solo a fare entrare un filo di luce erano da sempre, con l’attore in vita, attrazione che a Roma ti mostravano una volta giunto in città, monumento ufficioso all’Albertone nazionale e comunale. Dalla strada vedevi questo casone abbastanza assurdo a partire dalla collocazione, tra le terme di Caracalla e il Colosseo e la Fao, non dunque in centro ma neanche fuori – e pensare che l’Appia Antica con le sue signorilità (Valentino, Lollo, Zeffirelli, Loren-Ponti) è lì dietro l’angolo. Albertone visita diverse proprietà ma nessuna lo soddisfa, e non gli piace forse quella atmosfera da Sunset Boulevard, lui vuole una casa in mezzo ai monumenti, una domus per quel ruolo da “Last emperor” che i romani volentieri gli attribuiscono.

Sordi con le sorelle

Oggi si sale da piazzale Numa Pompilio tra il traffico bestiale tornato ai livelli pre Covid, si salgono stradette ed ecco il cancello ed ecco il casone, che Sordi compra cash nel 1954. Il rogito, esposto qui in foglio protocollo originale, è redatto il 20 maggio dal notaio dott. Eugenio Gelpi di Milano. La proprietà viene ceduta con una procura generale della signora Vittoria Consonni fu Ambrogio in rappresentanza del marito, “Sua Eccellenza Cav. di Gran Croc. Dott. Alessandro Chiavolini”, che era stato un ministro fascistissimo, già aiutante di Mussolini, processato e amnistiato (ecco perché Sordi pensava che fosse un convento. La casa era chiusa, Chiavolini esiliato a Milano). Il notaio certifica la vendita di un “villino con annessa autorimessa e adiacente area a giardino situato in via Druso numero 45”. Figlioccio di Augusto e fratello di Tiberio, Druso, nato nel 38 a. C., sposa la figlia di Marco Antonio, è un personaggio con una vita privata piattissima, fedelissimo lui, fedelissima pure la moglie (sarà sembrato un viatico, un presagio?).

Più che villino è un po’ domus romana e un po’ San Michele a Capri, però color ocra da castello mediceo: costruito con le migliori tecniche d’epoca, con vasto uso di cemento armato, dall’archistar romana Clemente Busiri Vici. L’acquisto è molto sordiano: la vede e la compra subito, in contanti, dieci milioni di lire, per scoprire poco dopo che Vittorio De Sica l’aveva vista pure, e ci aveva fatto un pensiero. “Ma scusa, tu ce li avevi i soldi in contanti?”, gli chiede diretto Sordi. “No, non ce li avevo”, risponde De Sica, e sembra una scena del conte Max, con Sordi che tiene il malloppo per andare in vacanza a Capracotta, e il conte Max Orsini-Varaldo che ormai vive di ricordi e offerte libere. “Io invece sì”, risponde Sordi, che ha definitivamente ingranato: nel ’54 ha trent’anni e 13 suoi film in sala, addirittura: tra cui “Un giorno in pretura”, “Un americano a Roma”, “Il seduttore”, “Accadde al commissariato”. Ha l’energia di un ragazzo ma l’esperienza di un uomo (come dirà il Dentone). Pronto per farsi la villa e convolarvi non con qualche star o starlette, bensì con le due sorelle amate, Savina e Aurelia.

I lavori dureranno due anni, e trasformano il casone in una summa di signorilità hollywoodiano-trasteverina; rustico tirato al fino, come direbbe Franca Valeri, quell’antico moderno che è er segreto di Roma. Ecco dunque le griglie dei condizionatori d’aria d’epoca in travertino; e gli interruttori della luce istoriati tra anfore e colonne e portici. La cosa più interessante è di sicuro il gran teatro al piano terra: un vero grande cinema-teatro all’americana, con loggione per il proiezionista e divanetto per gli ospiti, in alto, e fondale dipinto da Gino Severini che sembra quello di Carosello. A parte l’odore di chiuso, pare di poter respirare una rarissima polvere di stelle italiana: a quel piano, sul palco, Piero Piccioni suonava le marcette che poi sarebbero diventate i tormentoni dei film di Sordi; e Albertone stesso si esibiva per gli ospiti. Il cinema-teatro ricorda quello di San Simeon, l’altra dimora pazzotica di William Randolph Hearst nelle alture californiane, e il cinema con le poltroncine enormi (e in ultima fila i sedili economy class per il personale); e telefoni, anche qui, ovunque. Doveva essere un gran parlatore al telefono, Sordi, perché la casa è disseminata di apparecchi; ci sono quelli dorati, ce ne sono di bachelite, di plastica, a disco, a tasti: anche nel celebre camerino-barberia accanto alla camera da letto. Due, dorati, finto-antichi, sulla scrivania dello studio, tra pulsantiere annerite, la foto dei genitori sulla scrivania (severissimi, papà con baffi e bombetta, sembrano due briganti) e quella di Soraya con dedica, una targa di macchina californiana con le palme (“Alberto”), e tante enciclopedie Treccani impolverate.

Villa Sordi

Chissà se aveva anche lui un telefono con filo lungo un chilometro come Hearst, per muoversi agevolmente nella tenuta, prima dell’invenzione di cordless e cellulari, e però l’impressione è davvero di ritrovarsi tra le reliquie dell’unico star system possibile italiano. E dunque ancora più interessanti gli arredi e il mood. Arrivando nello studio, accatastati: piatti, pendole, cucù, stemmi, cavalli rampanti. Telegatti accanto a una Madonna con bambino simil Beato Angelico, e sculture bronzee da trattoria; il ritratto a olio che gli fa Rinaldo Geleng (una specie di Annigoni che faceva le locandine per Fellini); tre de Chirico, un de Pisis con un vaso di fiori smorto, il tutto salendo lo scalone di porfido rosso che immette in un salottino Luigi XV da madame Pompadour o moglie di dentista al Fleming. “Se non fossi stato attore sarei stato antiquario”, diceva, e pare andata meglio così. C’è anche un angolo penitenziale tutto rivestito di velluti, con le foto di Albertone con due Papi (Wojtyla e Ratzinger). Due unici pezzi di design, in tutta la casa, forse casuali: una Olivetti Lettera 35 di Mario Bellini, e lo stereo RR126 di Castiglioni per Brionvega, qui in una rara versione lignea: così anche questa minima forma di contemporaneità scompare tra vedute, bronzetti, scuole napoletane, Pannini, nature morte, legno e finto legno, a foderare l’epicentro di uno star system dei migliori anni di Roma Capitale, i Cinquanta-Sessanta di Hollywood sul Tevere, e della commedia all’italiana. Secondo il catalogo della mostra curata da Alessandro Nicosia, qui affluivano Agnelli, Monicelli, Steno, Fellini, Andreotti, Gassman. Soraya, sempre lei. Tutti.

Ingresso col cavallo di Nestore, l’ultimo viaggio

Nel ’72 però muore la sorella Savina e l’incanto si rompe e tutto il glamour sordiano cessa di colpo, e la casa di via Druso diventa teatro e monumento del cupo ménage domestico, con la sorella superstite Aurelia che a tutto sovrintende; lei gli sopravvive, e in coda ci saranno le note vicende ereditarie spiacevoli, coi parenti sconosciuti, e l’eredità contesa. Ma il ménage sordiano, prima e dopo la dipartita di Savina, rimane uno dei misteri da Notte della Repubblica.

In giardino c’è un roseto e un cimiterino per i cani; a ogni morte viene piantata una rosa; e una madonnina a cui viene destinata la preghiera mattutina, racconta il curatore. E saremo forse nel novero di quegli idilli ottocenteschi alla Pascoli, con le sorelle e i fratelli a dormire legate con uno spago alle dita dei piedi, dopo le preghiere della sera: ma qui nella grande mostra una sezione della tensostruttura esterna, costruita sulla piscina, viene dedicata espressamente alle donne e alla beneficenza, insomma i misteri sordiani. Ricevute degli enti benefici riconoscenti, e soprattutto pubblicistica sul cuore dell’attore: “Fu un vero sciupafemmine”; “Salta da un fiore all’altro”; “Non prese mai moglie ma fu sempre circondato da donne” (ahia). Grandi amori infelici: Anna Magnani e Silvana Mangano. Spose future e fidanzate più o meno probabili vengono regolarmente abbandonate, sempre in base al concetto di “discrezione”; “Lui pretendeva la massima discrezione” – ma per cosa e da chi? Per non far arrabbiare le sorelle? Avranno sofferto durante i balli, vogliose di averlo solo per loro? Sul terrazzo più alto, collegato alla camera da letto, un ascensore collega direttamente al giardino, per non essere visto (di nuovo, dalle sorelle?).

Salone villa Sordi

Ci vorrebbe un Garboli a indagare su questa Castelvecchio sul Tevere: ma ecco pure una certa Anna Lucia conosciuta da giurato da miss Italia, la milf Andreina Pagnani, maggiore di lui di quattordici anni, grande amore della sua vita, si dice. Una nubenda austriaca, Uta.

Più che villino è un po’ domus romana e un po’ San Michele a Capri, però color ocra da castello mediceo.

La cosa più interessante è di sicuro il gran teatro al piano terra: un vero grande cinema-teatro all’americana.

Nel ’72 muore la sorella Savina e l’incanto si rompe e il glamour sordiano cessa e la casa diventa teatro del cupo ménage domestico.

“Non si tiene mai abbastanza conto del fatto che Sordi fosse veramente mezzo matto”, scrive Rodolfo Sonego.

Stanza da letto di Sordi

Franzmair che viene a Roma coi genitori pronta per la cerimonia e viene rimbalzata da un segretario perché “siamo molto occupati” (poi Franzmair si chiamerà l’ascensorista tedesco che deve progettare l’uxoricidio nel “Vedovo”). Rapporti platonici o immaginari o idealizzati o sublimati per la necessità di indossare la maschera dell’eterno seduttore, una delle tante di questo eccelso attore? Mistero, altro mistero. Intanto per non saper né leggere né scrivere vengono elencate e vidimate anche un sovrappiù di signore apparse in gossip forse mai verificati: “Negli anni Ottanta, Sordi vive un amore con la annunciatrice tv Roberta Giusti, corteggia Katia Ricciarelli, Iva Zanicchi, frequenta la contessa Patrizia De Blanck” (sic) .

Ah, se questo travertino potesse parlare! “E’ lo schermo che è diventato piccolo, io sono ancora grande!”, avrà detto lui, mentre la sorella Aurelia, una specie di alter-ego femmina, girava tipo Max von Sydow a rigovernare cimeli e trofei che qui sono ammassati tra uniformi di vigili e costumi da marchese del Grillo? O sarà stato invece come in “Troppo forte”, film dell’amato Verdone, in cui Sordi un giorno è un avvocato pazzoide e l’altro è un ballerino classico molto fluido, in una casa un po’ folle e queer con la mamma e la zia?

La barberia privata

Atroci sospetti: ma forse anche in quest’ambiguità del grande seduttore spregiudicato che però vuol bene solo alle sorelle starà l’enorme identificazione di Sordi con un pubblico italiano molto macho, ma poi disposto a tutto soprattutto per mammà.

Al funerale, partecipazione commossa-isterica anche di una città che non si commuove facilmente. I vigili urbani e la Roma e il Messaggero su cui talvolta scriveva, che poi farà la pagina straordinaria “Ciao”, il giorno della morte, che chiude un’epoca. Pezzo di Veltroni: “La grande anima di Roma”. Attacco: “La notizia è come un colpo di frusta…”. In chiesa, Carlo e Franca Ciampi, pallidi. Striscioni della folla: “Tu sei tu e noi nun semo un cazzo” (che popolo!). E però la Padania: “E’ morto un attore romano”, a sottolineare un’alterità.

Alterità rimossa fin da subito, nella consacrazione in vita e postuma come “arci italiano” o “italiano medio”, identificazione totale stranissima quando poi Sordi è stato tutto tranne che questo. Considerato pigro, romano, indolente, fu invece stakanovista al lavoro e sulla pellicola. Sordi e i suoi personaggi hanno disperatamente sempre cercato di cambiare il loro status: dalla famiglia povera di Trastevere, fino al villone, come i suoi personaggi Sordi ha sempre desiderato e lavorato molto. Poteva essere un mercante d’armi (“Finché c’è guerra c’è speranza”), di mobili (“In viaggio con papà”), un medico più o meno corrotto (“Il prof. dott. Guido Tersilli”), un giudice integerrimo (“Tutti dentro”) un giornalista idealista-incapace e mitomane (“Una vita difficile”), ma tutto si può dire tranne che se ne stesse con le mani in mano. Non c’è stato nessun altro che abbia lavorato così tanto nel cinema italiano. Con Sordi anzi ci sono stati gli ultimi personaggi che hanno lavorato nel cinema italiano. Da lì in poi saranno tutti intellettuali in crisi, disoccupati in crisi, tossici in crisi.

I costumi scenici

C’è un illustre filone capeggiato da Rodolfo Sonego secondo cui l’unica chiave per capirlo è quella della pazzia (Andrea Minuz e io, piccoli fan di entrambi, siamo d’accordo). “Non si tiene mai abbastanza conto del fatto che Sordi fosse veramente mezzo matto”, scrive Sonego. E qui nella villa, cimeli e reperti della prima fase della sua carriera, quella in cui i personaggi erano incomprensibili e nevrotici – il conte Claro, Mario Pio, il compagnuccio della parrocchietta, il signor Dice: surreali e irritanti. Poi dopo Sordi diventerà mainstream, ma sempre tenendo viva una componente di follia: nel “Vedovo”, “primo film italiano che mette in scena la nevrosi”, secondo Tatti Sanguineti, Sordi progetta appunto l’uxoricidio, appena uscito da una clinica psichiatrica (ma a casa Sordi e nella mostra, incredibilmente, non c’è una sezione dedicata a questo film).

Dunque: o si accetta il fatto che l’italiano medio è mezzo matto, o non si comprende l’immedesimazione. “Fai colazione in villa o in grattacielo?”, chiedeva Sordi alla sua Elvira, sempre nel “Vedovo”. Lui di sicuro preferiva la villa. E se D’Annunzio nel suo Vittoriale teneva la nave Puglia e un cannone da cui talvolta sparava vere palle sui contadini inermi, qui nel vittoriale degli italiani matti non c’è cannone, basta quello del Gianicolo di fronte. Però guardando bene una piccola nave c’è: un modello di triremi romana, in giardino, dipinta in giallorosso, come la Roma, sotto un portico. Sordi, dicono, la riempiva di muschio e ci faceva il presepe, a ogni Santo Natale. Negli altri giorni, ci metteva i cocktail e vi serviva gli aperitivi, galleggianti, in piscina. Chissà che avranno detto le sorelle.

Articolo di Michele Masneri per Il Foglio Quotidiano (www.ilfoglio.it)

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