ARIA FRAGILE E INDIFESA, VESTITO DA SPORTIVO, CATENE AL COLLO, IL REGISTA RIBELLE SPIKE LEE ALLA MOSTRA SULLA IDENTITA’ AFRO AMERICANA IN CORSO ALLA FONDAZIONE PRADA DI MILANO– UNA LUNGA LISTA DI PERSONALITA’ LE CUI OPERE HANNO CONTATO NELLA VITA DEL BLACK PEOPLE AMERICANO
Dieci, venti, venticinque, trenta minuti aspettando Spike Lee che non arriva, che forse arriva e che alla fine arrivò. Un «tira e molla» scontato: perché ci sarà stato pure un buon motivo se mamma Jacquelyn aveva soprannominato Shelton Jackson Lee, nato ad Atlanta il 20 marzo 1957, proprio «Spike» e dunque «ribelle» (ma anche «magro», nomignolo altrettanto azzeccato considerata la corporatura ancora oggi esile).
La fama di personaggio difficile del regista di Lola Darling (1986) e Fa’ la cosa giusta (1989) di passaggio in Italia per il suo ultimo BlacKkKlansman sparisce però come d’ incanto davanti a questo piccolo uomo dalla pelle scura e l’ aria gracile quasi indifesa, cappelluccio blu, giubbettino grigio con scritte simil-murales, maglietta bianca, pantaloni scuri, sneaker, un grande anello e una maxi catena con tanto di croce al collo (il tutto più o meno rigorosamente firmato).
Un piccolo uomo spesso scosso da una risata inarrestabile e contagiosa che durante questa conversazione con «la Lettura» risuonerà molto spesso nelle stanze della Fondazione Prada dove Spike Lee ha presentato The Black Image Corporation, il progetto concepito dall’ artista-attivista Theaster Gates per l’ Osservatorio della Fondazione, in Galleria Vittorio Emanuele II, che partendo dagli archivi della Johnson Publishing Company (oltre quattro milioni di immagini) ha voluto «ri-definire» i codici estetico-culturali dell’ identità afroamericana contemporanea.
Parte da qui, da questa idea di un nuovo «canone nero», l’ idea di una lista dei dieci personaggi della black culture che tutti, ma proprio tutti, dovrebbero conoscere. «Vuole una lista?» sono le prime parole di Spike Lee.
Che subito afferra un foglio e una penna e inizia a scrivere, in silenzio, quasi sdraiato sul tavolo di questa stanza bianchissima e asettica dell’ Ala Nord dove nel 2017 era stata ospitata Uneasy Dancer, la prima grande mostra dedicata a Betye Saar (1926), artista da sempre impegnata nella rappresentazione dell’ identità afroamericana «al femminile». Il tempo scorre tra «I get one», «just anymore», risate.
E alla fine la lista arriva, anzi Spike Lee sfora il tetto dei dieci nomi e addirittura (più che) raddoppia. Per concludere, con un proclama da istrione, gridato nel microfono del registratore: «Come on ladies and gentlemen, boys and girls, I am Spike Lee and this is my list».
Tanti, tantissimi i cantanti e i musicisti, i classici (Miles Davis, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, John Coltrane, Prince con Michael Jackson, Marvin Gaye, Stevie Wonder, James Brown, Bob Marley, il baritono Paul Robeson) come le star dell’ ultima generazione rapper compresi (Jay-Z con Beyoncé, Snoop Dogg), quasi a voler ricordare una delle più grandi passioni di Spike Lee: la musica, appunto. E poi attori, registi, uomini di cinema: Harry Belafonte (a cui ha affidato nel suo ultimo film il ruolo di quel James Turner che racconta, di fronte a una platea di giovani militanti, la storia del vero linciaggio di Jesse Washington del 1916), Denzel Washington (il figlio, John David, è protagonista di BlacKkKlansman), Samuel L.Jackson.
Poi gli artisti: Jean-Michel Basquiat («l’ ho conosciuto quando ho incontrato Andy Warhol»), la fotografa-pittrice-performer Carrie Mae Weems, Elizabeth Catlett (famosa per le sculture e le stampe realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta sul tema dei diritti civili degli afroamericani), Romare Bearden (pittore, ma anche intellettuale e scrittore). Gli scrittori: James Baldwin e Toni Morrison più Ossie Davis (nata come attore ma poi affermatosi come poeta, sceneggiatore, nonché produttore). E gli sportivi: Michael Jordan e Mohammad Ali.
Una lista, quella di Spike Lee, inevitabilmente sbilanciata verso gli amori del regista: «Nella lista ho messo le persone di cui ho letto i libri, ho ascoltato la musica e le canzoni, ho visto i quadri». D’ altra parte, tiene a ribadire: «L’ arte, come la musica o la scrittura devono riflettere quello che circonda ognuno di noi, devono raccontare e descrivere il nostro mondo senza stravolgerlo e senza nemmeno mostrarlo migliore». Perché il «canone nero» deve servire prima di tutto come esempio universale: «Non mi interessa il risultato artistico in sé, ma l’ intenzione che ha animato queste persone e gli effetti che hanno avuto per i diritti e la vita della black-people nella società».
Dunque, artisti, attori, scrittori, sportivi e musicisti, ma prima di tutto militanti. Perché Miles Davis è il primo della lista? «Non è una questione di valore, anzi cancelliamo i numeri, non ci deve essere un primo e nemmeno un ultimo, sono tutti importanti allo stesso modo» (detto fatto: una penna e i numeri spariscono).
Perché nessun politico? «Crede forse che per me la politica non sia importante? Ha visto i miei film? Certo che è importante, ma quello che questi uomini e queste donne hanno fatto è altrettanto politico e altrettanto importante». Obama? «Non è stato perfetto, ma le attese per il suo mandato erano troppo alte».
Mentre parla, Spike Lee mostra, in sequenza dallo schermo del suo iPhone, una foto che mette insieme Martin Luther King e Malcolm X: «Sbaglia chi dice che non avessero gli stessi obiettivi, io penso di sì»; una di Malcolm X con Muhammad Ali: «Testimoni della verità, non bisogna dimenticarli»; una copertina che recita «Barack Obama dove sei?» e poi tanti altri della lista e anche tutta una serie di variazioni sul tema del presidente Trump, che Lee aveva definito un «figlio di puttana» per essersi rifiutato di condannare i suprematisti bianchi che avevano dato il via alle violenze di Charlottesville, in Virginia.
Ma BlacKkKlansman, ribadisce, non è un film contro Trump: «È un film contro la deriva a destra che sta prendendo il nostro mondo». Come mai non ha messo nell’ elenco il protagonista del suo nuovo film, quel Ron Stallworth, il poliziotto afro-americano che alla fine degli anni Settanta riuscì a infiltrarsi nel Ku Klux Klan: «Perché è un poliziotto». Ma, prendendo spunto dalla lista, Spike Lee aggiunge un altro dei buoni motivi per vedere il film: «Ascoltare Prince che nel finale canta uno spiritual negro, Mary Don’ t You Weep».
A chi dovrebbe servire questa lista? Alle nuove generazioni o alle vecchie? Ai bianchi o ai neri? «A tutti. Perché tutti, dopo averla letta, potranno magari andare su Google e scoprire che James Brown non è stato solo un grande musicista ma che nel 1968 aveva inciso una canzone I’ m Black and I’ m Proud che è una dichiarazione di orgoglio di essere nero.
Scoprirlo sarà un passo in avanti». E ai giovani cosa consiglia? «Wake up. Svegliatevi. State attenti. Non cedete agli imbrogli, ai sotterfugi, non cercateli. Non pensate che si può essere colpiti dalla fortuna se non ci si è fatti un culo così.
Dovete lavorare sodo. Uno degli insegnamenti peggiori che vengono trasmessi oggi ai giovani è che le cose possono succedere per caso. Il successo non avviene per caso».
Spike Lee potrebbe finire in questa lista? «Di sicuro i miei film hanno avuto un’ influenza sulla cultura in generale. Le persone mi dicono ancora che non sarebbero mai andati a una scuola di tradizione black, se non avessero visto Aule turbolente (School Daze).
Quello che faccio vivrà a lungo, anche dopo che me ne sarò andato. In fondo è tutto ciò che di meglio puoi sperare: che la tua vita sia servita a qualcosa» (non a caso, nella collezione permanente del Nmaahc, il National Museum of African American History and Culture di Washington, compaiono una mazza da baseball, una maglietta, il Boombox stereo e la locandina di Fa’ la cosa giusta). Dell’ Italia cosa ama? «Il neorealismo, Rossellini e Fellini, uno dei miei maestri, ho tre suoi manifesti autografati nel mio studio, la bella esperienza del Miracolo di Sant’ Anna».
Cosa vuol dire classico per Spike Lee? «Hannibal» dice sicuro. Non il Dottor Hannibal Lecter, protagonista del Silenzio degli innocenti, ma Annibale, «il più grande generale dell’ antichità» secondo Theodor Mommsen, il condottiero cartaginese che attraversò le Alpi con gli elefanti e che sconfisse i romani nella battaglia di Canne. Perché proprio lui? «Ha visto il colore della mia pelle? It’ s black». Nera, appunto, come avrebbe potuto essere quella di Annibale, nato a Cartagine, Nord Africa.
Articolo di Stefano Bucci per “la Lettura – Corriere della Sera”