ESCONO LE LETTERE DI CÉLINE PIENE DI FERVORE E DI FEROCIA- UOMO FORSE ABIETTO MA GRANDISSIMO SCRITTORE- “Quante lettere ricevo d’insulti tutti i giorni da sette a otto… e lettere di folle ammirazione!… quasi lo stesso… ho chiesto niente no! mai!… anarchico sono, come ieri domani, e me ne frego proprio delle opinioni”.
Almeno sulla narrativa del Novecento francese, non possono esserci dubbi. Come scrisse una volta per tutte il maestro dell’ antropologia, Claude Lévi-Strauss, «Proust e Céline: ecco la mia inesauribile felicità di lettore». Quanto al secondo, dunque, tanto vale mettere da parte la spinosa questione dell’ antisemitismo, per arrendersi alla sua immensa statura letteraria – magari ricordando la posizione assunta da Cesare Cases, che proponeva di stamparlo la mattina e fucilarlo nel primo pomeriggio.
Come che sia, siamo davanti a un autore il quale, nel rifiutare Proust a favore di Rabelais, impresse un impulso inaudito alla lingua francese. Quando si parla di Céline, inoltre, si è tranquilli di non sbagliare mai, perché l’ energia del suo stile rifulge in ogni testo, anche nei più moralmente meschini. Ma tant’ è, con buona pace di chi vorrebbe fondere letteratura ed etica.
Lo prova adesso Lettere agli editori, un volume ottimamente curato da Martina Cardelli per Quodlibet (pagg. 256, euro 19). Il libro presenta 219 lettere, composte dallo scrittore fra il 9 dicembre 1931 e il 30 giugno 1961, poche ore prima di morire.
Come nota Cardelli, toni spavaldi si alternano a pagine comiche e feroci, che ci mostrano un Céline arrabbiato, derelitto, incensato o dimenticato, ma sempre straordinariamente consapevole del proprio valore.
Le sue vicende editoriali si possono dividere in tre periodi: gli anni che vanno dal ’31 all’ inizio della Seconda guerra mondiale, con la pubblicazione dei primi due capolavori ( Viaggio al termine della notte e Morte a credito), l’ inizio della notorietà e i pamphlet razzisti; l’ epoca dal ’44 al ’51, con l’ esilio in Danimarca sotto l’ accusa di collaborazionismo e l’ uscita di alcune pubblicazioni semi-clandestine; infine il rientro a Parigi fino alla morte.
Tre periodi, bisogna precisare, per tre editori. Il primo fu il Robert Denoël, che nel 1931, folgorato dall’ opera prima di un medico sconosciuto (il Viaggio), non esitò a pubblicarla. Nonostante la sconfitta al premio Goncourt, giunsero molte recensioni entusiastiche (specie da sinistra) e un’ accoglienza da bestseller.
Dopo l’ uscita del secondo romanzo, che non ebbe però lo stesso successo, Denoël pubblicò tutti i pamphlet, prima d’ essere assassinato nel 1945 per motivi tuttora misteriosi. La casa editrice passò allora nelle mani della sua compagna Jean Voilier, romanziera e avvocatessa che fu tra l’ altro amante di Paul Valéry e Curzio Malaparte.
Céline romperà con lei per passare al secondo editore, uno sconosciuto di nome Pierre Monnier, che si distinguerà per una assoluta dedizione e generosità. Monnier non solo aiutò l’ autore durante dell’ esilio e nel processo del febbraio 1950, ma dopo l’ amnistia fu addirittura l’ artefice principale del suo passaggio a Gallimard – la cui collana “Pléiade” sanciva l’ assunzione fra i classici. E così fu: il ritorno a Parigi e la stesura del contratto con questo terzo editore misero fine a un doppio esilio, esistenziale e letterario.
Finalmente legittimato, e sostenuto da un romanziere antifascista come André Malraux, Céline approdava infine proprio a quella che avrebbe dovuto essere sin dall’ inizio la sua vera casa.
Infatti, la prima lettera di questo epistolario fu scritta appunto a Gallimard (allora edizioni della N.R.F., “Nouvelle Revue Française”). La colpa del disguido iniziale fu di Benjamin Crémieux, lo scopritore di Italo Svevo, che accettò sì il Voyage, ma troppo tardi, dato che il suo autore, come si è visto, aveva intanto firmato per Denoël. Ebbene, sapete quanto fu lunga l’ attesa che irritò tanto Céline? Incredibile a dirsi: appena due mesi e mezzo…
Questa quindi la trama della corrispondenza scelta dalla Cardelli. Resta da dire lo splendore, la ferocia e il sarcasmo delle missive, nonché l’ abiezione del loro autore. La presunzione e l’ opportunismo di Céline, sono pari soltanto alla sua grandezza. Siamo di fronte a un vero “effetto Wagner”, caso emblematico della spaventosa sproporzione fra un artista e la sua arte. La sensazione che si prova leggendo il narratore francese fa pensare a una doccia scozzese o alle montagne russe.
Proviamo allora a dimenticare l’ uomo, per godere appieno della sua scrittura. Toccanti le difese dei suoi testi da tagli e censure: «Non aggiunga una sola sillaba senza avvertirmi!», oppure: «Rifiuto nella maniera più assoluta di sopprimere una parola, una virgola», e ancora: «Con o senza il mio accordo, non dovete sopprimere nemmeno una lettera».
A questa appassionata difesa della libertà espressiva seguono osservazioni che illuminano una poetica basata sulla scelta dell’ argot, di certe forsennate slogature sintattiche o del portentoso uso dei puntini di sospensione. È in questa nevrosi linguistica, in questa sontuosa frenesia (affidata alla prediletta immagine della “piccola musica”), che culmina la maestria di Céline.
Egli lavora ad una sorta di sfregio musicale per dare vita a un francese alterato, travisato, sfigurato, frutto di crudeltà meticolosa, di feroce sapienza, di estenuato perfezionismo. La torturante bellezza dei suoi capolavori sta tutta nella forza con la quale lo stile si dimostra in grado di cantare l’ orrore. Lo mostrò egli stesso, commentando con parole illuminanti la sostanza della violenza dispiegata nel teatro elisabettiano: «L’ orrore è niente, senza il sogno e la musica… Prendiamo Shakespeare: 3/4 di flauto, 1/4 di sangue».
Valerio Magrelli per la Repubblica