STORIE DI MALATI

6 Dic 2021 | 0 commenti

Rossella
Una donna siede paziente in una sala d’aspetto accanto a un pianoforte e a un grande albero dipinto su una tela. Parla con un uomo di bambini e parcheggi, tempo e cose da comprare. Si chiama Rossella, ha quarant’anni, i capelli corti e un vestito a fiori. Vive a Milano da dieci anni, da quando ha lasciato la Sicilia insieme a suo marito. Nel mezzo del corridoio dell’hospice Il tulipano, l’unità distaccata di cure palliative dell’ospedale Niguarda, a Milano, un’infermiera la conduce in una stanza anonima, con un tavolo da riunioni e delle sedie bianche. È un lunedì di fine gennaio.

“Mi sono curata per due anni”, dice, “ma ora ho smesso”. Alla fine del 2015, appena diventata madre per la prima volta, Rossella ha scoperto di avere un tumore. Per due anni ha fatto cicli di chemio e radioterapia, ma non hanno funzionato. “Un giorno arrivo in ospedale per un appuntamento con un medico. Freddo, come stesse leggendo i titoli dei programmi in tv, mi dice che per me non c’è più niente da fare”. Tornata a casa, la donna non riusciva a realizzare il senso di quelle parole. “Mi sono detta: loro hanno finito, ma io la malattia ce l’ho ancora. Che faccio? Ci sarà un percorso da fare, ci sarà un dopo”.

A poco a poco la sua vita è cambiata e si è riempita di attese. “Con mio marito facciamo finta che la malattia non ci sia, come una famiglia normale. Ce ne accorgiamo di notte, quando mi alzo perché sto male, o quando gli amici vanno di qua e di là, mentre io non posso”.

Ogni paziente coltiva la speranza di guarire, ma noi non possiamo alimentarla se non è reale

Una delle conseguenze di questa nuova vita, è che la coppia è rimasta sola. “Ho fatto una nuova amicizia grazie al tumore. Una donna che ce l’ha avuto e ha provato tutto questo. Gli altri amici sono spariti. A volte sono io che li chiamo. Per loro, starmi vicino è andare a mangiare fuori”.

Quando è stata ricoverata per la prima volta al Niguarda, Rossella ha chiesto un aiuto psicologico. Una squadra di professioniste ha cominciato a seguirla e la segue ancora oggi: “Il ‘non c’è niente da fare’ degli oncologi significa ‘stai per morire’. Quello delle psicologhe è arricchito da un milione di parole: ‘Cerca altre strade, preparati nella maniera giusta’. È questo che devi dire a una persona che sta male”.

Il problema è che a volte è difficile per gli stessi oncologi trovare le frasi giuste. “Spesso quando diciamo che le terapie non funzionano più, molti pazienti vivono la cosa come un abbandono. Ma anche per noi è un pugno allo stomaco, perché rapporti di mesi, a volte di anni, svaniscono in pochi minuti”, dice Andrea Ardizzoni, primario di oncologia al policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. “Ogni paziente coltiva la speranza di guarire, ma noi non possiamo alimentarla se non è reale. Quando suggeriamo di affidarsi a un palliativista non lo stiamo abbandonando, gli stiamo dicendo che è meglio affidarsi a chi ha competenze più adatte e specifiche”.

Dice Barbara Cozzolino, una delle psicologhe di Rossella: “Frasi come ‘reagisci, non mollare, dipende da te’ si sentono ripetere spesso nei casi di pazienti con una malattia non guaribile. E si pensa che se smettono di curarsi in fondo si stiano arrendendo. La terminologia bellica è molto diffusa. Ma noi dobbiamo aiutare le persone a individuare le loro priorità, i desideri da mettere in cima alla lista e capire insieme quanto si può fare. Altrimenti si finisce per non godersi il presente, con quanto di bello può esserci”.

Chiedo a Rossella come passa la giornate. “Sembra strano, ma non è che abbia tutto questo tempo. L’anno scorso facevo la spesa, andavo a prendere il bambino all’asilo. Quest’anno faccio tutto con fatica, sarà la chemio che mi ha tolto un sacco di forze. Dormo la gran parte della giornata”.

In ogni caso, non ha rimorsi: “Rifarei tutte le cure che mi hanno proposto, da capo, anche se non hanno portato a niente. Non ho mai messo in dubbio nulla. Anche se mi è dispiaciuto il distacco degli oncologi. Quando dicono ‘con te abbiamo finito’ ti gelano”.

Il medico
Nato nel 2015, Il Tulipano è – come tutti gli hospice – una struttura dedicata alla cura dei pazienti con malattie in fasi avanzate che non rispondono più alle terapie: tumori, cardiopatie, pneumopatie e neuropatie, sclerosi laterali amiotrofiche (sla), aids. Alla fine degli anni novanta erano tre, mentre oggi sono 246. Il loro ruolo è fondamentale: non solo aiutano a lenire il dolore delle persone malate, ma assistono loro e i loro familiari anche dal punto di vista psicologico.

Per legge, la 38 del 2010, sono gratuiti e sono rivolti a tutti coloro che non possono ricevere le cure palliative in ambulatorio o a casa perché le condizioni fisiche non lo permettono o le famiglie non ce la fanno a gestire la situazione.

Il Tulipano è un luogo dove ci si ferma in una metropoli che corre, immerso nei viali alberati del parco Paolo Pini, in zona Affori. Ignazio Causarano è il medico responsabile. È un signore di sessant’anni con gli occhiali tondi, gentile e risoluto. “Mi fa arrabbiare quando dicono che l’hospice è il posto in cui si va a morire. Qui invece si viene a vivere, e lo si fa nelle migliori condizioni possibili”, dice.

 - Nick Veasey, Getty Images
Nick Veasey, Getty Images

“Le malattie gravi isolano le persone, troncano relazioni, amicizie. Noi lavoriamo per ridare un significato a ciò che la malattia interrompe”, dice il dottore. “Persone che avevano un ruolo, valori, fedi incrollabili vanno in crisi. Si chiedono che senso abbia la loro vita, in questo stato. La sofferenza fisica è un aspetto importante da affrontare, ma non possiamo tralasciare l’aspetto psicologico”.
Camminiamo per i corridoi. Non c’è il caos tipico di una corsia d’ospedale. Nelle sale dei medici c’è un brusio vivace, mentre in quelle dei pazienti, tutte singole, si sentono solo parole sottovoce.

Una porta a vetri divide le corsie dal giardino. È una giornata grigia, di notte è piovuto e l’erba è bagnata. “Qualcuno esprime il desiderio di essere aiutato ad alzarsi dal letto e di andare fuori, di sentire l’aria addosso”, racconta Causarano. “E noi lo aiutiamo, se le condizioni lo permettono. Così, se vuole, lo lasciamo anche fumare, o bere un bicchiere di vino. Ai familiari dico sempre: ‘Se oggi è una buona giornata, godiamocela!’. L’elemento improvviso è sempre dietro l’angolo”.

Nelle stanze dei pazienti si alternano persone di tutte le età, provenienza ed estrazione sociale. Con loro ci sono figli, genitori, partner. Tutti portano animali e oggetti di ogni tipo per ricreare un’atmosfera casalinga. All’interno della struttura c’è una sala di culto per tutte le religioni, mentre nel giardino c’è un gazebo di legno dov’è stato celebrato anche un matrimonio. Si fa di tutto perché un percorso di cui si sa l’esito ma non la tempistica prosegua senza sofferenze.

Causarano riflette spesso su cosa possa fare la differenza tra una buona e una cattiva morte, se ne esiste una, e dice: “Io non ho visto nessuno morire contento, ovvio. Ho visto persone pacificate, persone rassegnate. Persone incazzate nere e anche persone disperate, che lo rimangono nonostante tutto quello che noi possiamo fare”.

Gli chiedo se tutto questo si riflette in qualche modo sulla sua vita. “Per me, e per tutti noi qui, la morte è un processo atteso, non una lotta all’ultimo respiro. Ci dobbiamo porre il problema di come si muore, non del perché. Per esempio, è una sconfitta se il percorso verso la morte si lascia dietro situazioni irrisolte, un familiare scontento o un malato angosciato, nonostante i nostri interventi”.

Beatrice
Torno al Tulipano un giovedì mattina di febbraio, per incontrare Beatrice. Arriviamo nello stesso momento: è una donna di trentacinque anni con occhi vivaci dietro agli occhiali da vista, un vestito blu elettrico e un cane al guinzaglio. Massimo, il padre, è ricoverato qui da circa un mese a causa di un tumore. La sua stanza, che come le altre porta il nome di un fiore, si affaccia sugli alberi del parco. Ci sono un tavolo con delle sedie, sulla porta è appeso un disegno fatto da Massimo. Beatrice e la madre trascorrono tutta la giornata in questa stanza, in compagnia del loro cane. “È come se mi trovassi in un momento di sospensione”, dice Beatrice.

Storica dell’arte contemporanea, ha vissuto per anni in Medio Oriente. È tornata a Milano per stare vicina ai genitori. “Eravamo una famiglia disfunzionale, ma questa situazione ci ha messi a dura prova e ha cambiato le cose”, racconta. “Avevo problemi più che altro con mia madre. La malattia ci ha fatto riavvicinare quando entrambe pensavamo che non fosse più possibile, e ha fatto riavvicinare lei a mio padre”.

Non è la prima volta che Beatrice si trova a fare i conti con una persona che sa di dover morire. “A maggio 2016, appena sono tornata in Italia, la situazione di mia zia, malata di cancro, è precipitata. Con lei abbiamo preso la scelta dell’assistenza domiciliare integrata. Dare alla persona malata la capacità di scegliere, in un momento in cui si sente impotente, è fondamentale”.

Ho abitato in paesi dove il peso dei privati nella sanità è tale che anche morire è una questione di classe.

All’inizio di gennaio 2018, quando il tumore del padre si è aggravato e si è capito che non c’era più niente da fare, Massimo e la famiglia hanno dovuto scegliere se ricevere le cure a casa o in un hospice . “Speravamo di rimanere a casa, ma viste le sue condizioni, l’hospice ci è sembrata la cosa migliore”, spiega Beatrice. “Qui ci è stato dato tempo di qualità. Possiamo fare delle cose insieme, confrontarci. Non tutti hanno la possibilità di salutare i propri cari, e la vita, dicendosi tutto quello che ci si voleva dire”.

C’è un aspetto che colpisce Beatrice. “La possibilità di poterlo fare in una struttura pubblica, senza pagare”, dice. “Ho abitato in paesi dove il peso dei privati nella sanità è tale che anche morire è una questione di classe. Chi può permettersi di morire bene muore bene. Gli altri no”.

Ci spostiamo nella sala comune per continuare a parlare senza disturbare. “Prima del Medio Oriente”, racconta Beatrice, “ho vissuto a lungo nel sudest asiatico e le persone che ho conosciuto mi hanno insegnato che la morte non è qualcosa che deve per forza interrompere le cose. Nel caso della mia famiglia, per esempio, le nostre relazioni familiari sono rinate, e mio padre sta pensando a una sorta di testamento ‘morale’ da lasciarci”.

Massimo, infatti, spera che i progetti di volontariato in Africa di cui si è occupato vadano avanti . “Il fatto di pensare che non si esaurisca tutto con lui lo aiuta moltissimo, in questo momento”, sorride Beatrice.

Carla
Il giorno dopo, di pomeriggio, incontro Carla. Parla al telefono nel corridoio del Tulipano. Mi ha dato appuntamento in una giornata complicata. La condizione di sua sorella Bianca, prima stabile, è peggiorata nel giro di poche ore. “È una montagna che è venuta giù e ci sta schiacciando tutti”, dice, “sta andando tutto così veloce”.

Capelli grigi tagliati corti e occhiali da vista appesi al collo, Carla vive a tre quarti d’ora di macchina da Milano, vicino all’aeroporto di Malpensa. Viene all’hospice tutti i giorni da un mese, dalla mattina alla sera: “Di me non m’importa. Se non fosse per la mia famiglia non me ne andrei mai da qui. Non voglio perdere neanche un minuto”. La voce decisa di Carla di tanto in tanto s’incrina: succede quando ripercorrere il suo rapporto con Bianca, le confidenze al telefono e i consigli che si sono scambiate per quarant’anni.

Rispetto al cognato Enrico, Carla dice di essere più razionale: “A mia sorella non nascondo la realtà, anche se è dolorosa. Loro due invece vivono in un mondo a parte, sono impenetrabili. Come se dicessero ‘sta succedendo ad altri, non a noi’. Si proteggono”.

Per far passare le lunghe ore di una giornata, le due sorelle giocano a carte. “Cerco di non far trasparire la mia sofferenza, altrimenti comincerebbe a preoccuparsi di cosa io e il marito faremo dopo la sua morte. Ma l’unica cosa a cui deve pensare è a star bene lei”.

 - Nick Veasey, Getty Images
Nick Veasey, Getty Images

La prima volta che Carla è entrata nell’hospice, pur sapendo dove si trovava, ha avuto la sensazione di essere arrivata in un albergo. “È un posto intimo. C’è la sala da tè, il soggiorno e tutti sono dolcissimi. Mia sorella ha realizzato dov’era realmente solo poco tempo fa, appena si è potuta alzare dal letto. Ma va bene così. Cerchiamo di vivere gioiosamente quel che resta, senza complicazioni”.

La parte più difficile sono i continui alti e bassi della salute di Bianca, che hanno conseguenze sul suo umore e sulla sua voglia di stare con gli altri. “I medici la aiutano ad avere le energie sufficienti, così che possa credere ancora in qualcosa. Il rischio è quello di dirsi: ‘So che devo morire, e allora che mi frega se mi fai i massaggi o se mi curi il ginocchio’. A mia sorella continuo a ripetere che le deve interessare, perché quando sono con lei voglio che sia vigile, rilassata, in modo da poter chiacchierare serenamente. Almeno finché ce la fa”.

L’accademia di cure palliative
Da Milano vado a Bentivoglio, nell’area metropolitana di Bologna, per capire ancora meglio cosa rende queste strutture così importanti, per passare dalle parole dei pazienti a quelle di ricercatori e specialisti. Ci vado perché a Bentivoglio, oltre a un hospice che da quindici anni accoglie pazienti con malattie inguaribili, c’è anche l’accademia delle scienze di medicina palliativa.

Le strutture si trovano in un enorme spazio verde fuori del paese, a due passi dalla statale che collega Bologna e Ferrara. Le stanze dei pazienti hanno finestre grandi che danno sul prato. L’atmosfera ricorda quella di un campus americano, o inglese.

La direttrice è Daniela Celin. Le chiedo come funzionano gli hospice dal punto di vista economico. “Non credo che ne esista uno in pareggio di bilancio”, dice. “Il servizio sanitario nazionale copre solo una parte dei costi, circa il 65-70 per cento. È così in ogni regione. Il resto, per noi, arriva dalla fondazione Seragnoli, grazie alla raccolta fondi. L’hospice è una struttura assistenziale e di accoglienza, non necessariamente a fini remunerativi. Ecco perché non c’è molta competizione a cercare di aprirne altri”.

Nonostante siano stati fatti molti passi in avanti, i centri sono ancora pochi e distribuiti a macchia di leopardo sul territorio nazionale. Nella sola Lombardia, per esempio, sono più di sessanta, il doppio rispetto al numero complessivo di quelli presenti in Sicilia, Campania, Puglia, Sardegna, Basilicata e Calabria. Inoltre, secondo i dati della Federazione cure palliative, sono ancora poche le persone che scelgono di andarci: il 30 per cento dei malati di tumore, che sono a loro volta meno della metà di quelli che ne avrebbero bisogno e diritto. E questo perché, spiega il presidente della federazione Luca Moroni, “sono in molti a pensare che le cure palliative siano inutili o poco efficaci” e perché si crede che riguardino solo chi ha un cancro.

Un’altra criticità che riguarda gli hospice è la formazione dei medici e delle altre figure sanitarie: i corsi sulle cure palliative sono opzionali, e sono in programma solo in poche facoltà. La legge 38 del 2010 ha cercato di porre un rimedio a questa situazione dando alle università la possibilità di fare dei master, ma non sembra sufficiente.

“Il problema”, dice Monica Beccaro, responsabile dell’accademia di Bentivoglio, “è che le linee guida del ministero prevedono master diversi per i medici, per gli infermieri e per gli operatori sociosanitari, finendo per separare figure professionali che devono collaborare”. L’accademia di Bentivoglio è l’unica in Italia che organizza master in cui queste figure – oltre a fisioterapisti e psicologi – lavorano insieme.

La realtà, spesso, è che c’è ancora diffidenza verso la medicina palliativa. “Quando il paziente mette piede in un ospedale è come se entrasse in una specie di ciclo di produzione. E spesso viene sottoposto a una serie di esami inutili, per non dire invasivi”, dice Celin. “La cultura prevalente è quella di tentare di fare qualcosa anche contro le evidenze scientifiche. C’è la percezione, sbagliata, che la medicina palliativa sia qualcosa che non fa né bene né male, e per questo viene relegata alle ultime fasi della malattia”.

Oggi però la sfida per i palliativisti è la “presa in carico precoce”. E cioè la possibilità di assistere i malati che non rispondono più alle cure, ma che non hanno bisogno di un ricovero immediato. Aiutarli non solo nelle ultime fasi della loro vita, ma cominciare a costruire subito legami con gli operatori sanitari, e individuare la struttura più vicina dove essere assistiti, così come le cure più adatte. L’obiettivo è fare in modo che la qualità della loro vita non peggiori. Un obiettivo non da poco.

Articolo di Cristiano Barducci per Internazionale

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