Torno sul tema che un poco mi ossessiona: quello delle parole.
Non tanto sulla loro origine ed evoluzione da un punto di vista del glottologo, interessante, stimolante, ma sostanzialmente da tavolino.
Ci voglio tornare dalla parte di chi sta nella parola, la usa e abusa tutti i giorni e se ne sporca, rimanendone invischiato, di chi vede un corpo vivo e pulsante e non un relitto su cui il tempo ha sedimentato echi più che suoni.
Si dice che con mille parole sei padrone della lingua, o almeno ti fai capire e capisci, comunichi anche pensieri sofisticati e complessi, che è poi lo scopo finale della comunicazione verbale.
Con poco più di vocaboli, sei in grado di scrivere un libro, così come viene, alla buona, usi il linguaggio delle gente, il loro afasico, ripetitivo, monocorde lessico familiare, magari puoi spacciarlo per romanzo neorealista.
Ma allora, perché tante lingue, ma soprattutto perché tante parole?
Forse sarà perché, come sostiene Sklovskij, la parola con l’andare del tempo si anestetizza? E quindi bisogna inventarne e usarne sempre di diverse.
O sarà, meglio ancora, perché la parola segue l’uomo e non l’uomo la parola, nel senso che la parola è sempre in cammino con le gambe dell’uomo?
La parola cui penso è geo referenziata e temporalmente localizzata. Solo così ti spieghi la massacrante stringatezza dell’inglese americano, o del perché in Russia per dire ubriacarsi si usano 40 verbi diversi, ma la stessa vodka, o perché gli esquimesi dispongano all’incirca degli stessi vocaboli per descrivere le sfumature del bianco. Pensate, le sfumature del bianco!!, mentre in altre lingue per indicare un colore non hai nessun vocabolo perché quella lingua non ne dispone.
Le parole sfuggono all’uomo quando non si adattano agli incastri della mente e sono impermeabili alle sollecitazioni ambientali. Pretendono una loro autonomia, si contrappongono alla sua realtà, che non riflettono più se non deformandola.
E’ la sorte di tutti i linguaggi esoterici, specialisti, burocratici nei quali si realizza la eterogenesi dei fini: nate per comunicare oppongono un muro fra gli uomini.
Esempi mirabili, in letteratura, sono così copiosi da imbarazzare.
Uno fra tutti, il linguaggio burocratico del Processo di Kafka (lo scrittore, di burocrazie si intendeva avendo per molto tempo lavorato a Praga in un ente pubblico che si occupava degli infortuni sul lavoro).
Romanzo sopravvissuto a se stesso: incompiuto e da bruciare, secondo il volere dello stesso autore. Eppure mirabilmente compiuto e perfettamente aderente nello stile e nelle parole a quanto di angosciante e spersonalizzante siamo soliti associare al termine burocratico.
Fin dal celebre incipit: “Qualcuno doveva avere calunniato Iosef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato”.
Il perenne clima di indeterminatezza cala in un sistema dove tutto pare funzionare per voleri imperscrutabili, dove tutto appare criptico e indecifrabile, dove la persona non conta ma conta l’adempimento, il rituale, la prassi.
“Il tribunale non ti chiede nulla, ti accoglie quando viene, ti lascia andare quando vai”, altra enigmatica e sfuggente frase che viene a K. da quel mondo di “procedure oniriche”, come mi sembrerebbe opportuno definire quello del Processo.
Non una fabbrica di sogni, ovviamente, ma di incubi sì.
Le parole aiutano l’uomo, sovente lo imbrogliano. Unico consiglio è usarle con precauzione, usare quelle giuste e quelle che bastano.