L’intesa fra Draghi e Giorgetti, vero punto di equilibrio del governo. Tutela degli asset italiani strategici, senza nazionalismi sgangherati, ma con giudizio e misura. Per riaffermare autonomia e centralità non serve battere i pugni sul tavolo, basta una telefonata. “Fare il premier mi piace”. Stop a De Luca.
Le case farmaceutiche? “Alcune società si sono vendute le cose due o tre volte”. Ilva? “Strategica” e dunque arriva Franco Bernabè. I semiconduttori? “Ci servono. Abbiamo deciso di esercitare la golden power”. La prossima sarà Iveco. E poi Alitalia “che è costosa” ma gli stranieri non prenderanno i nostri slot”. I vaccini? “Li produrremo noi. Non ci abbiamo rinunciato”. Non è sovranismo scalcagnato e non è un caso che piaccia a Giancarlo Giorgetti. C’è qualcosa di nuovo che Mario Draghi ha iniziato a pronunciare: “Metto il mio prestigio a servizio dell’ Italia e mista piacendo ”. E’ il patriottismo sgrassato da scorie di nazionalismo.
Il suo motto è “faremo meglio se non faremo da soli”. Cosa sta accadendo all’italiano che più di tutti ha girato il mondo e che dal mondo è riconosciuto? Vuole dimostrare che si può difendere “la bandiera senza straparlare di nazione”. Ha un’idea tutta sua che è anche l’idea del ministro dello Sviluppo Economico. Condividono insieme una linea di pensiero. E’ questa: ogni qual volta ci saranno dossier dove la competizione internazionale può mettere a rischio il paese, il governo interverrà. S esi dovesse rendere necessariosi eserciterà la gol denpower sulle reti di trasporto. Perché nessuno in Europa si sogna di dire: “Ma cosa gli è preso agli italiani. Sono diventati protezionisti”? Perché a farlo è l’italiano più internazionale e perché non è vero che “bisogna battere i pugni” quando si ha la possibilità di telefonare. Draghi telefona. E telefona Giorgetti che cerca di spiegare alla Lega che è “più facile fare l’interesse della nazione quandosi ha un premier che l’ Europa non teme ma ci invidia”. Qual è stata la prima azienda salvata daGiorg etti? Si tratta di Corneliani. Ne è andato fiero per una ragione sentimentale che è poi forse la più intima: la madre lavorava in un laboratorio tessile. L’altra è che era un’azienda prestigiosa, anche questa strategica se si può dire, e che stava per finire nelle mani dei cinesi. Non sono salvataggi, difese da aut archi ci.Giorg etti non sopporta il“sovranismoda operetta, quando diventa robacciada propaganda ”. Preferisce utilizzare la parola“orgoglio nazionale ”. Draghi sull’orgoglio vuole costruire tutto un racconto che è il suo racconto. Rivela che “Bankitalia era un’istituzione e che questo incarico è diverso. Un servizio”. E’ un’esperienza che lo sta travolgendo e che gli fa tornare in mente gli anni da direttore generale del Tesoro. Dato che non ha un partito tutto suo mette a partito il suo blasone. E ha infatti ragione Claudio Borghi quando dice“che Draghi critica l’ Europa più della Lega ”. Non di ceche però Draghi lo fa con costume. Con lo stesso costume è dell’opinione che Alitalia va salvata ma senza prendersi in giro. Lo si fa per non consentire ai grandi vettori (Lufthansa e Ryanair) di fare come vogliono approfittando di un’ azienda guastata. Ma una cosa è farlo in questo modo un’ altra è farlo“per avere una compagnia di bandiera” che è una fantasia da provinciali. Draghi pensa che il miglior modo di fare l’italiano è dire che nella nuova azienda “non tutti ci potranno en tra re”.Giorg etti, disp onda, che“è meglio dispiacerequalcuno ma sistemare una volta per tutte qualcosa”. Un ulteriore esempio è l’Ilva. Lo stato entra nel cda. Lo fa attraverso il ministero dell’ Economia e grazie a 400 milioni che serviranno ad aumentare il capitale di Arcelor Mittal. La condizione è però una: più management e meno spasmi politici quindi personalità di rilievo. Sui vaccini si ragiona allo stesso modo. Un polo farmaceutico serve ma “non per fare le fiale made in Italy” aggiunge Draghi, ma perché “lo hanno già fatto Francia e Germania. L’autonomia vaccinale è economia e non può essere un’ideologia”. Cosa c’è di male? A Draghi piace l’idea di “trovare la patria nel mondo” e se rispetta le regioni è perché gli piacciono le patrie piccole ma fino a quando non entrano in conflitto. Contro il sovranismo regionale, quello sgrammaticato di Vincenzo De Luca, Draghi applicherà, anche qui, la sua golden power. Non gli sarà permesso di vaccinare le categorie che vuole lui. A Draghi gli hanno sentito dire così: “Vediamo fino a dove si spinge e poi agiremo”. Il pensiero di dopo è che“questa non si lascerà correre ”. E’ insomma l’italianità senza slogan. Il dilemma? Prima Erdogan o De Luca?
Articolo di Carmelo Caruso per il Foglio Quotidiano
IL DADO E’ TRATTO: LA LEGA ENTRA NEL GOVERNO DRAGHI- LA SPREGIUDICATA SVOLTA DI MATTEO SALVINI VOLUTA DA GIORGETTI CHE PROFETIZZAVA: ” il governo Conte cadrà, il centrodestra non è pronto a governare, un governo «con dentro i migliori, guidato dal migliore», cioè Draghi, può servirci anche a cambiare l’immagine internazionale della Lega, e dare a Salvini la credibilità e l’affidabilità che ancora non ha. “
Segnatevi questa data: 6 febbraio 2021, festa di santa Dorotea, patrona dei giovani sposi e della corrente più moderata e centrista della Dc. Sarà tattica, sarà strategia, il dado comunque è tratto. È come se Salvini si fosse accorto ieri per davvero, per la prima volta, di guidare il primo partito italiano; e che tutto il lavoro fatto, tutte le felpe, i comizi, le polemiche, i processi, i papeete, rischiano di diventare inutili se il patrimonio di consenso acquisito in questi anni non viene ora investito nel governo della più grande emergenza del dopoguerra.
Così, in una sola mattinata, dimenticando per un attimo Lampedusa, Borghi&Bagnai e Marine Le Pen, il segretario della Lega ha messo la freccia e ha imboccato la corsia di sorpasso, superando innanzitutto se stesso e i suoi cliché. Si è presentato come il baricentro della politica italiana, e quindi perno di un gabinetto di unità nazionale. Per sostituirsi ai Cinquestelle, che ne avevano la forza ma non la vocazione; e al Pd, che ne ha la presunzione ma raramente la forza.
Naturalmente si può dire che è una mossa. E sicuramente lo è. È chiaro che serve a mettere nell’angolo la sinistra, che all’improvviso ha paura di andare al governo, e fuori dall’inquadratura la Meloni, che balla da sola. Non ha posto pregiudiziali contro nessuno, e così ha disinnescato quelle degli altri verso di lui. L’ipotesi che entri nel governo ha gettato nel panico il partito di Conte, che è nato per tenerlo fuori.
Si può anche sospettare che ai suoi dieci minuti da statista faranno come sempre seguito i riflessi condizionati del populista, duri a morire in uno cresciuto a pane e social. Ma quando si decide di passare dall’opposizione al governo non è mai solo tattica. C’è di più.
C’è innanzitutto la società: gli interessi e gli elettori che la Lega oggi rappresenta. Il Nord, insomma. Salvini in questi anni ha preso i voti dei ceti produttivi, dei borghesi di Forza Italia, e ora deve dare risposte. A questa gente sicurezza e lotta ai clandestini vanno bene, ma non bastano. Di certo non bastano ora che l’economia sprofonda. Citofonare Zaia per ulteriori spiegazioni.
E poi c’è la politica, quella che non si consuma nello spazio di un sondaggio. Il 16 dicembre, quasi due mesi fa, Giancarlo Giorgetti faceva con il cronista del Corriere tre considerazioni: il governo Conte cadrà, il centrodestra non è pronto a governare, un governo «con dentro i migliori, guidato dal migliore», cioè Draghi, può servirci anche a cambiare l’immagine internazionale della Lega, e dare a Salvini la credibilità e l’affidabilità che ancora non ha. Una profezia.
D’altra parte, fare l’antieuropeo per partito preso oggi, mentre dall’Europa stanno per arrivare centinaia di miliardi, porterebbe allo stesso isolamento che pagò il Pci negli anni 50, facendo l’antiamericano mentre il Piano Marshall innescava il «miracolo italiano». E poi Draghi non è Monti: l’altro Mario venne per tagliare, questo per spendere. Nel suo discorso di ieri, Salvini ha insistito non a caso su ciò che lo porta verso l’ex presidente della Bce: anche lui è uno “sviluppista”, con lui si può parlare di cantieri, di lavoro, di taglio delle tasse. Del resto Draghi è anche l’uomo che ha aperto la strada a una forma di condivisione del debito in Europa: oggi per la prima volta i soldi dei tedeschi e dei francesi possono essere investiti in Italia. Ma se noi falliamo nell’usarli bene, cioè per rilanciare la nostra economia e così aiutare anche quella tedesca e francese, questa sarà l’ultima volta. E dopo si tornerà all’Europa che non piace a Salvini, quella dell’austerità punitiva. Draghi gliel’ha detto, più o meno in questi termini: capito perché anche i “nazionalisti” devono sperare che il mio tentativo abbia successo?
«Non puoi governare l’Italia se non fai parte delle forze di governo in Europa», gli sussurrava da tempo la voce di dentro di un “consigliere” liberale, per traghettarlo da Perón a Pera. Chissà se, ora che le carte della politica sono state tutte rimescolate, quel professore verrà ascoltato anche su un altro punto: intestarsi l’intero centrodestra, e sceglierne uno con una storia spendibile. A Salvini mancano ancora molte cose per riuscirci. Ma per cominciare, dice un nostalgico del Pdl che ieri gli ha fatto i complimenti, potrebbe guidare nel prossimo giro di consultazioni una delegazione unitaria del centrodestra di governo, con Berlusconi e i popolari, e senza la Meloni. Dimostrerebbe così di essersi emancipato dalla paura che l’ha attanagliato in questi mesi: avere un concorrente a destra. Anche perché dai sondaggi non pare che ci siano molti italiani entusiasti di andare sull’Aventino. Stare al governo può anzi dare un dividendo; e nessuno lo sa meglio di Salvini, che al Viminale ha visto raddoppiare i suoi consensi.
Anche se non sarà il «governo dei migliori», agli italiani interessa che sia un governo migliore del precedente. Salvini non può rifiutare una scommessa così.
Articolo di Antonio Polito per il Corriere della Sera
I PROBLEMI SUL TAPPETO: EMERGENZA COVID, DECRESCITA DEMOGRAFICA, DEFICIT DI BILANCIO, RIFORME STRUTTURALI MAI ATTUATE- COME USARE LA SPESA “BUONA” PER RIPRENDERE A CRESCERE, MIGLIORANDO FORMAZIONE E RICERCA, VALORIZZANDO LE DONNE E LA FAMIGLIA.
IN QUESTO ARTICOLO SONO ANTICIPATI CON SEMPLICITA’ E CHIAREZZA I TEMI DEL PROSSIMO GOVERNO DRAGHI, UN’AGENDA CHE PUO’ CAMBIARE L’ITALIA.
Qual è il pensiero economico di Mario Draghi? La domanda non è banale e la risposta non è scontata. E’ stato l’ uomo chiave delle privatizzazioni negli anni Novanta, ma anche quello che quest’anno ha suggerito spesa pubblica e debito per sostenere famiglie e imprese. Da presidente della Bce ha invocato il controllo dei conti (l’ austerità) e le riforme strutturali, ma è stato anche l’ uomo che ha introdotto politiche monetarie espansive ed eterodosse. Impostazioni diverse in circostanze differenti. Si può dire che l’ approccio di Draghi, che gli è valso la definizione di “enigmatico” da parte del Financial Times, è quello dei versi dell’ Ecclesiaste ( o dei Byrds, per chi preferisce il rock): “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’ è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante…”.
Il presidente del Consiglio incaricato è da almeno trent’ anni un protagonista della politica economica italiana ed europea. Finora ha interpretato le sue funzioni con spirito weberiano: quando prendeva la parola, non esprimeva opinioni personali, ma interveniva a nome dell’istituzione che di volta involta rappresentava (il Tesoro, la Banca d’ Italia, la Bce). Per la prima volta, Draghi si cimenta in un altro sport: da premier, dovrà articolare la sua visione delle cose, esporre la sua lettura delle cause di breve e lungo termine del declino italiano, definire una strategia di politica economica, coniugare i vincoli politici a cui è soggetto con i limiti e le opportunità di Next Generation Eu. Capire cosa pensa davvero è, dunque, essenziale per decifrare le sue prossime mosse. Fortunatamente, Draghi ha disseminato i suoi discorsi di indizi che lasciano intuire i suoi punti di riferimento e le sue convinzioni sulla condizione italiana.
La tesi di dottorato, discussa nel 1970 al Mit sotto la guida di Franco Modigliani è dedicata a tre questioni che si sarebbero rilevate cruciali nella sua carriera: il rapporto tra produttività e pil, quello tra politica monetaria e bilancia dei pagamenti, e il trade-off tra obiettivi di breve termine della politica economica e crescita dilungo periodo. Temi che, appunto, sono determinanti per governare l’Italia qui-e-ora. Quali sono gli investimenti prioritari da finanziare nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza? A quali riforme devono accompagnarsi? E, soprattutto, in base a quali criteri verranno stabiliti gli uni e gli altri?
Volendogli affibbiare un’etichetta, Draghi è un neo-keynesiano pragmatico: crede nell’uso terapeutico della spesa pubblica in tempi di crisi, ma ritiene che le fasi di espansione vadano usate per mettere i conti in ordine. Sa che l’uso anticiclico della politica monetaria e fiscale serve a comprare tempo, ma che le determinanti dello sviluppo stanno altrove. Capisce l’ importanza delle buone istituzioni e dell’equilibrio tra i poteri, ed è convinto che sono l’ efficacia ed efficienza della giustizia a dare sostanza ai diritti di proprietà, allo scambio e, in ultima analisi, alla buona allocazione delle risorse. Proprio per questo, come la creazione di ricchezza e benessere sono il prodotto dell’ efficace divisione del lavoro, la crescita di un paese dipende da quella particolare divisione dei compiti che separa le funzioni dello stato( regolare e redistribuire) da quelle del privato (competere e perseguire il profitto ).
Tutti hanno citato e molti hanno letto gli interventi recenti di Draghi, sul Financial Times e al Meeting di Rimini, con l’ammissione che, in questo momento, gli stati devono spendere e indebitarsi e la distinzione tra debito “buono” e “cattivo ”. Qualche informazione in più emerge da altri discorsi. Parlando alla Scuola Sant’Anna di Pisa per i vent’anni dell’euro, ha spiegato che “la bassa crescita italiana è un fenomeno che ha inizio molti, molti anni prima della nascita dell’euro. Si tratta chiaramente di un problema di offerta ”. Per comprendere a cosa si riferiva, bisogna tornare un poco indietro nel tempo. I “problemi di offerta” rimandano al vasto capitolo delle riforme strutturali. Nel 2014, a Jackson Hole, Draghi spiegava che “non c’ è grado di accomodamento di bilancio o monetario che possa compensare le riforme strutturali necessarie nell’area dell’euro”. E quindi, mettendo insieme i problemi congiunturali con quelli strutturali, la spesa pubblica è oggi essenziale, ma va intesa a complemento e non in sostituzione delle riforme. Quali? “Riforme dei mercati del lavoro, dei beni e servizi e interventi volti a migliorare il contesto imprenditoriale ”. Le riforme devono aumentare la flessibilità per consentire “ai lavoratori di ricollocarsi rapidamente cogliendo nuove opportunità di lavoro” e accrescere “l’ intensità di competenze delle forze di lavoro ”. Temi ribaditi nel discorso alla Camera dei deputati nel 2015:“La politica monetaria sostiene il ciclo economico, aiuta l’economia ad avvicinarsi al potenziale produttivo. Ma non lo può accrescere, perché esso dipende dalla struttura dell’economia, dipende, appunto, da riforme strutturali”.
Ma per trovare un catalogo compiuto delle riforme di cui l’ Italia ha bisogno, bisogna tornare ancora più indietro, rileggendo quello che forse è il più politico dei suoi documenti: le considerazioni finali del 2011, le ultime da governatore della Banca d’Italia, che riecheggiano la famosa lettera che qualche mese dopo Draghi e Jean-Claude Trichet avrebbero inviato al governo italiano. https://www.wallstreetitalia.com/testo-della-lettera-bce-draghi-e-trichet-al-governo-berlusconi/
Tali riforme includono la revisione della spesa e la riduzione delle tasse. Ma puntano al cuore del problema: “La produttività ristagna perché il sistema non si è ancora bene adattato alle nuove tecnologie, alla globalizzazione”. Dunque occorre mettere mano al funzionamento del paese nei suoi gangli fondamentali :“Va affrontato alla radice il problema di efficienza della giustizia civile ”; “Occorre proseguire nella riforma del nostro sistema di istruzione ”;“La concorrenza, radicata in molta parte dell’industria, stenta a propagarsi al settore dei servizi, specialmente quelli di pubblica utilità ”. Inoltre, proseguiva Draghi, è cruciale incrementare la dotazione infrastrutturale, ripensare il welfare in senso universalistico e promuovere l’occupazione femminile, troppo lontana dagli standard europei.
Per capire dove Draghi vorrà dirigersi bisogna rendersi conto che la crisi drammatica del Covid si è innestata su una crisi più profonda e antica. Dall’ una si può uscire, almeno in parte, spendendo danaro pubblico; dall’altra si esce solo spendendo meno, spendendo meglio e liberando le briglie dell’economia. La domanda da cui siamo partiti ora può essere riformulata così: quanta parte e quali parti dell’agenda Draghi il Parlamento intende portare avanti?
Articolo di LUCIANO CAPONE E CARLO STAGNARO per Il Foglio Quotidiano
Compromessi, coraggio, umiltà, competenza. Il governo ideale secondo l’ex capo della Bce
L’europeismo che non è solo una vocazione ma è una necessità- Saprà Salvini comprendere la differenza fra sovranità e indipendenza? -L’inazione che non è solo una non scelta ma è un atto di irresponsabilità: significa fallire- Il premier ideale secondo le parole di Mario Draghi.
Dopo il tentativo andato a male di fare un governo europeista fondato sui Ciampolillo, qualsiasi appello al compromesso rischia di rievocare il trasformismo. Eppure è proprio su questo metodo che Mario Draghi cercherà di fondare un governo capace di superare la crisi sanitaria, economica e politica del paese.
Esattamente due anni fa, all’Università di Bologna, l’allora presidente della Bce chiuse il suo intervento con un elogio della nobiltà del compromesso citando un sermone di Joseph Ratzinger fatto qualche decennio prima di diventare Papa Benedetto XVI: “Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale… Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole… Non è morale il moralismo dell’avventura… Non l’ assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”.
Nel discorso di Bologna non è indicato solo il superamento della sterile intransigenza, un tema che lacererà il M5s moralista, ma anche la distinzione fondamentale tra due concetti come “indipendenza” e “sovranità”, su cui invece dovrà riflettere la Lega sovranista. Draghi evidenziava come l’idea che l’integrazione europea produca dei costi in termini di perdita di sovranità nazionale, sia “sbagliata” perché “la vera sovranità si riflette non nel potere di fare le eleggi, come vuole una definizione giuridica di essa, ma nel migliore controllo degli eventi in maniera da rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini ”.
In un mondo globalizzato e interdipendente, l’idea di riprendere il controllo nazionale è illusoria perché “l’indipendenza non garantisce la sovranità”. Sono tanti gli stati formalmente autonomi che subiscono decisioni prese da altri altrove. In questo senso, l’Ue ha ampliato e non ridotto la capacità degli stati membri di autodeterminarsi rispetto alla complessità globale. Quella europea “è una sovranità condivisa, preferibile a una inesistente”.
Insomma, l’ europeismo per un paese come l’ Italia non è solo una vocazione ma una necessità :“In un mondo globalizzato tutti i paesi per essere sovrani devono cooperare” perché “la cooperazione, proteggendo gli stati nazionali dalle pressioni esterne, rende più efficaci le sue politiche interne ”. E’ la distinzione che, qualche anno prima, in una lecture alla Harvard Kennedy School, aveva fatto tra il concetto di sovranità degli assolutisti come Jean Bodin e quello, da lui preferito, dei liberali come John Locke e James Madison secondo cui “la sovranità è definita dalla capacità di fornire, in pratica, i servizi essenziali che le persone si aspettano dal governo: un sovrano che non fosse in grado di svolgere efficacemente il suo mandato sarebbe sovrano solo di nome”.
I benefici del compromesso e della cooperazione, affrontati in modo più alto a Bologna, Draghi li aveva indicati sul piano più concreto della politica monetaria l’anno precedente, alla Scuola Sant’Anna di Pisa, in un discorso sui vent’anni dell’euro. La moneta unica non viene indicata come un fenomeno di cessione di sovranità, ma come un processo che “ha consentito a diversi paesi di recuperare sovranità monetaria”, perché prima dell’euro “le decisioni rilevanti di politica monetaria erano allora prese in quanto condivise da tutti i paesi partecipanti”. Paradossalmente, è ciò che l’ex presidente della Bce dice ai sovranisti, ritornare a una moneta nazionale comporterebbe una perdita di sovranità perché farebbe perdere il controllo sulla politica monetaria.
Se i discorsi di Bologna e di Pisa mostrano come l’approccio cooperativo ed europeista possa guidare l’azione politica di un eventuale governo Draghi con le forze politiche e le istituzioni europee, un terzo intervento, tenuto sempre nel 2019 in un’ altra università, la Cattolica di Milano, indica le tre caratteristiche individuali che secondo Draghi dovrebbero guidare le decisioni di un policy maker: la conoscenza, il coraggio e l’umiltà. “L’incertezza in cui operano i policy maker è a maggior ragione le loro decisioni dovrebbero cercare di essere fondate sulla conoscenza degli esperti”. Ciò che l’allora banchiere centrale indica agli studenti non è un modello tecnocratico guidato dai più saggi, ma l’importanza della conoscenza per comprendere la natura dei problemi, per tenere distinto il merito tecnico dalle implicazioni politiche, per prendere le decisioni più adeguate ed eventualmente correggerle se cambiano le circostanze e le evidenze. Insomma, il modello di riferimento non è un’autoritaria repubblica platonica governata dai sapienti, ma il metodo einaudiano del conoscere per deliberare: “Viviamo in un mondo in cui la rilevanza della conoscenza per il policy making è messa in discussione. Sta scemando la fiducia nei fatti oggettivi, risultato della ricerca, riportati da fonti imparziali; aumenta invece il peso delle opinioni soggettive che paiono moltiplicarsi senza limiti, rimbalzando attraverso il globo come in una gigantesca eco. In questo contesto è più facile per il policymaker rispecchiare semplicemente quelli che egli reputa essere gli umori della pubblica opinione, sminuendo il valore della conoscenza, assumendo prospettive di breve respiro e obbedendo più all’istinto che alla ragione. Ma solitamente ciò non serve l’interesse pubblico”. L’altra caratteristica è il coraggio: il politico deve studiare, deve dialogare, deve raggiungere compromessi, ma deve decidere .“La conoscenza non è però tutto. Una volta stabilito nella misura del possibile come stanno i fatti arriva il momento della decisione … Vi sono situazioni in cui anche le migliori analisi non danno quella certezza che rende una decisione facile: la tentazione di non decidere è frequente. E’ in questo momento che il policy maker deve far leva sul coraggio ”. Perché :“Anche il non agire rappresenta infatti una decisione. Quando l’ inazione compromette il mandato affidato al policy maker legislatori, decidere di non agire significa fallire ”.
Il coraggio nel prendere decisioni non è qualcosa che Draghi ha solo predicato, ma è stato praticato e soprattutto in situazioni di crisi. Ed è un aspetto che gli è stato riconosciuto anche da chi, come i tedeschi, nella Bce si è duramente opposto alle sue scelte :“Lei– ha detto un anno fa a Draghi il presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier conferendogli la Gran Croce al Merito – è dovuto intervenire usando gli strumenti di una banca centrale in un momento in cui non esistevano strumenti europei per contrastare le crisi. Ha dovuto agire in un contesto per cui non c’ era un copione europeo. Ma aspettare non era un’ opzione. E lei ha agito. In questo modo in tempi burrascosi ha mantenuto unito l’euro e quindi l’Unione europea”. In questo senso, soprattutto in una situazione critica come quella attuale, Draghi sarà un decisionista.
La terza caratteristica è l’umiltà, che “discende dalla consapevolezza che il potere e la responsabilità del servitore pubblico non sono illimitati ma derivano dal mandato conferito che guida le sue decisioni e pone limiti alla sua azione”. Anche in questo caso c’è un’applicazione concreta.
Pochi ricordano che le celebri tre parole magiche “whatever it takes” con cui Draghi salvò l’euro, erano precedute da altre tre “within our mandate” e cioè “nell’ambito del nostro mandato”. Ma l’umiltà, secondo Draghi, non va intesa solo come rispetto dei limiti legali e istituzionali ma anche dei limiti individuali di ognuno di noi. Nel 2006, quando era ancora governatore della Banca d’Italia, in un intervento in ricordo di Luigi Einaudi, Draghi disse che l’insegnamento intellettuale più importante del grande economista liberale è “l’idea cioè che l’uomo è fallibile; che legislatori e pianificatori possono sbagliare al pari degli altri esseri umani; che disposizioni di legge o amministrative spesso mancano gli obiettivi desiderati o portano a conseguenze impreviste; che è dunque indispensabile creare le condizioni perché l’uomo sia libero di sperimentare, di innovare senza costrizioni, di cercare continuamente soluzioni innovative a vecchi problemi; sbagliando, se occorre; ma contribuendo a fare crescere la società nel suo complesso”.
Compromesso, cooperazione, competenza, decisionismo, umiltà. Il ritratto di Draghi è molto più complesso di quello, grigio tecnocrate o infallibile salvatore della patria, dipinto da detrattori o adulatori.
TRAMITO E LEGGENDE MARIO DRAGHI E’ IL DEUS EX MACHINA CUI SONO APPESE LE SPERANZE DELLA RINASCITA IN ITALIA- TUTTI LO VOGLIONO, LUI SI SCHERNISCE, MA CI SARA’ DAVVERO LA SUPPLICA PERCHE’ SI OCCUPI DEL MANICOMIO ITALIANO?
QUESTO ARTICOLO E’ STATO SCRITTO PRIMA DELL’INCARICO, CONFERITO A DRAGHI PER LA FORMAZIONE DEL NUOVO GOVERNO, DAL PRESIDENTE MATTARELLA Il 2 FEBBRAIO 2021
Ma davvero Draghi? Nessuno è in grado di saperlo perché Draghi sta sopra a tutta questa crisi di governo; e per quanto ci si possa sforzare a tirarcelo dentro, egli appare – per natura e vocazione, ma ancor più come percezione – di gran lunga superiore a tutta questa faccenda di consultazioni, giochetti e indispensabili manfrine. Quindi Draghi non c’ è; semmai sovrasta, aleggia, incombe. L’ ombra di Draghi. Ma tempo verrà… Quando? Chi lo sa.
Nell’ immaginario del Palazzo la sua figura appare tanto lontana dalla scena pubblica quanto legata al mistero di una volontà posta più in alto. Così, più che sul convitato di pietra (Moliere, Puskin), la nozione drammaturgica di Mario Draghi può farsi risalire all’ antichità classica, ai macchinari di scena della tragedia, soprattutto Euripide, quando da una specie di gru calava sul palcoscenico il Deus ex machina, propedeutico ad ogni ragionevole catarsi.
E poi, senza esagerare, disse un giorno Giorgetti: «Chi glielo fa fare di finire in questo manicomio?». Anche questo argomento ha la sua forza. Eppure. Ha rivelato una volta D’ Alema, che da premier l’ avrebbe voluto a Mediobanca, il giudizio che ne diede Enrico Cuccia, tanto per restare agli arcani: «È un civil servant», dal che si potrebbe anche pensare…
Draghi, il cui solo nome vale cento punti di spread. Perché c’ è sempre il guaio del debito pubblico, ma adesso anche il disastro Covid e il Recovery da pianificare. Draghi, che dove va, ogni occasione diventa più importante; Draghi ubiquo e multifunzionale, una quantità di lauree honoris causa, accademico pontificio, sintesi vivente di creatività italiana, rigore tedesco, understatement britannico; Draghi che Trump prima lo prese di petto, poi dovette fare marcia indietro, «ah, ci servirebbe un Draghi alla Federal Reserve!».
Draghi, che chi parla con lui prende a emanare una luce speciale. Vissuto come mito, a 360 gradi: viaggia in economy e in seconda ferroviaria, si nutre di barrette energetiche, non sente né caldo né freddo (il futuro suocero, temendo non potesse permetterselo, gli voleva comprare un cappotto), si organizza pure il sonno. Amen.
A tal punto irraggiungibile da far sembrare strano che faccia il tifo per la Roma, abbia telefonato per solidarietà a De Laurentiis per Juve-Napoli e si sia impanicato quando un’ atletica ex femen e dimostrante anti-Bce con balzo a sorpresa gli atterrò sul tavolo a pochi centimetri dal naso. Sono anni che va avanti questa specie di implicita chiamata che si riverbera in una sorta di predestinazione trascendentale.
Gli impresari del suo coinvolgimento sono, in ordine di precedenza e insistenza, Berlusconi, Renzi e Giorgetti. Il Pd ci starebbe. I cinque stelle, che all’ inizio l’ avversavano, hanno quasi tutti cambiato idea. Ha suscitato un fracco di risate sui giornali, sui social e anche in chiesa (c’ è spassosa video-omelia di un sacerdote sardo), il fatto che dopo aver voluto incontrare Draghi, Di Maio se n’ è poi uscito, povero Giggino: «Mi ha fatto un’ ottima impressione».
Ma per dire quali folcloristici orizzonti abbiano lambito il consenso, vale la pena di rivelare che di lui ha parlato bene addirittura il generale Pappalardo, che durante le vacanze se l’ è trovato davanti a Città della Pieve e gli ha chiesto: «Posso cominciare a far stampare nuove monete?»; al che Draghi, che probabilmente non lo conosceva o pensava a uno scherzo, gli ha detto sì, certo, faccia pure questa sua lira italica, conquistando in tal modo anche il cuore del capo dei Forconi.
Dice: ma chi l’ ha mai eletto? Ecco, al di là della teoria e delle procedure lo sfacelo del presente e l’ angoscia di un futuro ancora più spaventoso potrebbero surrogare la mancanza di legittimazione democratica.
Dopo l’ esperienza di Mario Monti, sarebbe il definitivo commissariamento e il default di un’ intera generazione. E tuttavia, rispetto alla figura e alla vicenda di Monti, Draghi, che non nasce professore ma funzionario dello Stato, appare vantaggiosamente priva di altezzosità accademica; così come, sul piano della gestione, aver pilotato per tanti anni la Bce, trattando con Merkel e respingendo gli attacchi della Bundesbank è qualcosa che rafforza il suo ruolo, o forse la sua missione di deus ex machina.
Articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica”
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