IL CAPITANO DALLE BANDE NERE SCIVOLA SUL CASO CUCCHI- DOPO TANTA MITOLOGIA SPARSA SULL’ARMA DEI CARABINIERI, SENZA CRITERIO E MISURA, SI RITROVA SOLO E AMMACCATO- IL CARABINIERE IN DIVISA CHE BACIA LA MANO DELLA SORELLA ILARIA, IN SEGNO DI RISPETTO E SOLIDARIETA’, SCOPRE LA STRUMENTALE DIFESA CHE SALVINI HA FATTO DEGLI IMPUTATI, PUR DI RACCATTARE FACILI SIMPATIE.COSI’ LA PENSA GEPPETTO
Questa volta non sono bastati né i consigli degli spin doctor, né i precetti del potente apparato comunicativo per evitare che, sotto la maschera di moderato, rispuntasse il ghigno luciferino del bifolco, rovinando l’immagine equilibrata e prudente che dall’opposizione si era imposta, necessaria per conquistare il consenso del grande centro degli elettori benpensanti.
Parlo della reazione di Matteo Salvini alla notizia della sentenza sul caso Cucchi con la quale si condannano i due carabinieri che, avendo in custodia Stefano Cucchi lo pestarono, causandone la morte.
Nella fotograzia Ilaria Cucchi e Salvatore Caporaso, maresciallo superiore dei carabinieri, il militare che dopo la sentenza del processo per la morte di Stefano Cucchi ha fatto il baciamano a Ilaria: “Tutta questa attenzione mi stupisce. Chi porta la divisa, e in particolare questa, per come la vedo io ha una responsabilità in più di fronte a tutti”
Non è ancora la sentenza definitiva, vale la presunzione di innocenza, ma in questo caso l’unica incertezza è se siano state le botte a causarne la morte o altra concausa, elemento non trascurabile per i due condannati, mentre lo è per l’Arma, la famiglia Cucchi e per l’opinione pubblica.
L’ex ministro, che in ogni occasione aveva sempre manifestato la sua solidarietà all’Arma e agli agenti coinvolti, ha detto torvo. “Io combatto la droga”. Non c’entrerebbe niente la droga, semmai le botte, ha osservato la sorella Ilaria. Ma Salvini, con quella frase, ha in realtà voluto sottintendere: era un drogato e uno spacciatore, se l’è andata a cercare.
Quindi l’habeas corpus, principio cardine del nostro ordinamento, vale per tutti, ma non per drogati, negher, ladri, spacciatori, magnaccia, finocchi, ecc. In questi casi se qualche mazzata in più causa la morte, pazienza, ……. prima gli italiani.
La ricerca ad ogni costo dell’appeal compiacente dell’elettore, del consenso inebriante, specchio di una popolarità così nuda di idee da non poter parlare, non dico alla testa, men che meno al cuore, ma solamente alla pancia, è come una corda che per reggersi deve essere sempre tirata, finché si spezza.
Il ruzzolone finale è la giusta fine, improvvisa e rapinosa, di chi si cimenta in questa arte manipolatoria e pregiudicata. Si pecca sempre, prima o dopo, per uno strappo di carattere, per l’eccesso che rovina. Quell’Arma, nella cui divisa ti eri pavoneggiato, fra una pausa e l’altra, in braghette a Milano marittima, ti volta le spalle e ti spiazza. Allora il re appare solo e nudo, la strumentalizzazione si fa vergognosa e palese. Il bacio di un carabiniere in divisa alla mano alla sorella di Cucchi, Ilaria, ha scombinato la partita e ridistribuito i ruoli: l’Arma sta con Cucchi, con Ilaria, con chi ha voluto in tutti questi anni che su tutto emergesse la verità. L’Arma sta dalla parte giusta, del diritto e del rispetto delle dignità umana, anche a costo di sacrificare i suoi figli, se essi hanno tradito la loro missione, trasformando un doveroso arresto in un massacro criminale. L’ex ministro sta dall’altra, quella sbagliata, dove il diritto si piega alla convenienza, le regole sono calpestate, e le complicità corrive e la paura inquinano non solo le prove, ma la coscienza.
Spero che la vicenda abbia fatto capire a molti quanto sia pericoloso affidarsi al pifferaio magico che promette miracoli, ma soprattutto, se lasciato fare, rischia di “gettare il bambino con l’acqua sporca”.
Da Zelig a Popeye, fra un selfie e l’altro, un mojito e un pedalò, il Nostro in versione beach entusiasma le folle. Finalmente uno di noi, anzi il peggio di noi!
Al termine di una settimana lunga (nove giorni, in effetti) che ha cambiato per sempre usi e costumi da bagno della politica italiana, e al netto delle polemiche e delle indignazioni, degli sfottò e dei pedalò, resta l’ impressione che l’ annuale spiaggiamento del «dittatore dello stato libero di Papeete» (copyright di Gianmaria Tammaro) racconti molto più gli italiani che Matteo Salvini.
Il ministro dell’ Interno continua a impersonare il personaggio che si è forgiato, un incrocio fra Cetto La Qualunque e lo Sceriffo dei western, con una spruzzata di Mussolini a mollo a Riccione fra una bonifica e un treno in orario. Nulla di nuovo. Colpisce, invece, la reazione del pubblico che, osservato sul posto e non dalle pagine dei giornali, non appare affatto scandalizzato.
Anzi: sempre divertito e talvolta entusiasta. Insomma, nell’ eterna diatriba se i governanti debbano essere o almeno apparire migliori dei governati, Salvini non ha dubbi nel rappresentare al meglio il nostro peggio. Ma anche gli italiani sembrano apprezzare «uno famoso, ministro di qualche cosa, di che partito? Boh» (testuale, un ragazzotto tatuato e palestrato al bar del Papeete) che si comporta come loro, senza farsi tanti problemi, anzi «tante pare» (nel senso di paranoie, sempre il figuro di cui sopra).
Bella zio. Salvini, bisogna ammetterlo, è bravissimo. Si adatta a ogni pubblico, con il risultato di piacere a tutti. Prendete l’ ultimo dì di svaccanza, sabato. Di mattina, Matteo è il papà affettuoso. Si appalesa in spiaggia svestito come al solito, ciabatte, torso nudo, panza fuori e la «tau» francescana a ricordare la recente svolta confessionale con rosari, crocifissi, reliquie e requiem (per la laicità).
Porta sulle spalle, da buon padre di famiglia, anzi di famiglie, la figlia piccola. Ed è subito grande successo presso i bagnanti intergenerazionali di Milano Marittima: nonne intenerite, padri solidali, mamme che lo additano ad esempio a compagni riluttanti. Davanti all’ ombrellone si forma un muro tale di richiedenti selfie che il ministro deve riparare nella piscina dell’ hotel. Del resto, anche il famigerato giro in moto d’ acqua del pargolo più grande era già stato derubricato e perdonato come «errore mio», cuore di papà, altro che familismo amorale.
Nel pomeriggio il ministro Zelig passa in modalità «divertimento gggiovane». E qui bisogna spiegare che l’ amato Papeete Beach verso sera si trasforma da pacioso stabilimento balneare in una specie di discoteca a cielo aperto per un pubblico di under 30 accomunati dalla passione per i tatuaggi. Spiccano delle spettacolari cubiste sia autoctone sia d’ importazione, specie, a giudicare dal lato B, brasiliana: non molto sovranista, ma pazienza. Come pure non tanto patriottico è che, installatosi Salvini alla consolle con un mojito in mano, il baccanale si apra con una versione dance dell’ Inno di Mameli. Surreale.
Grazie a Wikipedia, si cerca di immaginare in analoga situazione qualche predecessore al Ministero dell’ Interno: che so, il barone Ricasoli o Antonino Starabba marchese di Rudinì o, in tempi più recenti e democristiani, Mariano Rumor. No, decisamente l’ immaginazione rifugge. E comunque anche in questo caso, nessuna riprovazione da parte del pubblico, solo selfie e risate. In serata, torna il politico, in piazza a Cervia alla Festa della Lega Romagna, che è poi la versione uguale e contraria della Festa dell’ Unità: stesse piade, stessi banchetti per il tesseramento, stesse «esse», perfino stesse polche e mazurche danzate da «due vicecampioni del mondo» di ballo liscio presentati dal sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, in perfetto stile pippobaudesco, chiamando perfino «un bell’ applauso!». Bisogna dare il tempo al ministro di arrivare da Milano Marittima in bicicletta.
Poi inizia l’«intervista» con il direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano. E, anche in questo caso, l’ attenzione non è per Salvini, che ripete con minime variazioni gli slogan consolidati, ma per una piazza colma che se li beve come sangiovese doc. L’ anziana e simpatica rezdora con una mano fasciata (un incidente di cucina, racconterà poi) che si chiama Ines, applaude a ogni frase e più forte quando arriva un grido ostile, uno solo, e il contestatore viene prima bollato come «povero comunistello» dal signor ministro e poi espulso a fischi dalla piazza.
Macché profondità, complessità, «ragionamenti» di cara demitiana memoria. Salvini vende alla sua piazza un mondo semplicissimo, dove i criminali marciscono in galera, le navi delle Ong vanno ad attraccare ad Amburgo e i soldi si trovano, senza farsi tanti problemi per i «numerini» di quei cattivoni di Bruxelles. «Bravo Matteo, brèv!», strilla la Ines. Immaginatevi il tripudio al “Romagna mia” finale. E stavolta viene in mente il Bardo: «Non nelle stelle, caro Bruto, ma in noi stessi, è la colpa se siamo schiavi».
Una scelta coraggiosa dell’ editore Rubbettino propone finalmente ai lettori italiani la traduzione del volume Nazionalismo banale, scritto dallo psicologo sociale britannico Michael Billig più di due decenni fa. La pubblicazione colma una lacuna nello scaffale degli studi più influenti prodotti in quegli anni attorno al fenomeno storico delle nazioni, assieme alle opere di Eric Hobsbawm, Benedict Anderson, Ernest Gellner tra gli altri.
MICHAEL BILLIG
La tesi di Billig, esposta con buona dose di provocazione e humor, è che la persistenza del nazionalismo nella storia non sia da addebitare tanto alle fasi in cui esso è più rumoroso e distinguibile nel dibattito politico, quanto a quelle in cui la sua riproduzione quotidiana è affidata a simboli e rituali talmente innocui e abituali da passare ormai inosservati. È questo, conclude Billig, che fa considerare implicitamente il «mondo di nazioni» nel quale siamo abituati a vivere come un ordine naturale senza alternative.
Uscito a metà degli anni Novanta in piena dissonanza con la retorica della «globalizzazione» come cifra della storia, Nazionalismo banale acquisisce una valenza persino profetica ai nostri giorni, in cui preoccupanti espressioni di un nazionalismo oltranzista, ancorché declinato in termini differenti a seconda dei contesti, tornano a condizionare il dibattito e le scelte della politica. Dell’ attualità delle sue tesi e della nuova ondata nazionalista «la Lettura» ha discusso con l’autore.
La copertina di Nazionalismo banale di MICHAEL BILLIG
Professor Billig, quando «Banal Nationalism» fu pubblicato più di vent’anni fa, Francis Fukuyama e altri come lui presentavano la «globalizzazione» come fine della storia, e dunque anche del nazionalismo. Il suo libro al contrario avvertiva non soltanto come quest’ultimo stesse sopravvivendo sotto la superficie, ma che proprio le nuove divisioni sociali generate dalla globalizzazione rischiavano di alimentarlo. L’attuale rinascita del nazionalismo conferma la sua tesi o siamo di fronte a un fenomeno nuovo e imprevedibile?
«La tesi di Banal Nationalism era che, finché continueranno a esistere gli Stati nazionali, esisterà anche il nazionalismo, perché l’ideologia del nazionalismo include quelle credenze e pratiche che fanno sembrare il mondo degli Stati nazionali come assolutamente normale. Quel mondo ha continuato a esistere; di conseguenza, non dovrebbe sorprendere che altrettanto abbia fatto il nazionalismo.
Certamente quest’ ultimo può assumere forme diverse, dai movimenti improntati a un “nazionalismo caldo”, votati a cambiare le frontiere o a perseguire un’ interpretazione aggressiva dell’ interesse nazionale, alle forme “fredde” che all’ apparenza sembrano meno ortodosse, ma si fondano comunque sugli interessi degli Stati nazionali.
I presidenti USA Trum e Obama
Dunque non direi che il fenomeno sia rinato, dal momento che non è mai scomparso. È sempre stato sul punto di erompere, ad esempio durante l’invasione statunitense dell’Iraq o nei conflitti per dar vita a nuovi Stati nazionali in seguito al crollo dell’impero sovietico. Donald Trump può aver guadagnato elettori con lo slogan make America great again, ma i suoi predecessori, incluso Barack Obama, hanno normalmente definito gli Stati Uniti come “una grande nazione” e hanno appuntato piccole bandiere sulle loro giacche. Indubbiamente la situazione odierna è imprevedibile, ma questo non significa che siamo di fronte a qualcosa di interamente nuovo. Di certo possiamo prevedere che lo Stato nazionale non sia destinato a scomparire. vent’anni fa alcuni “globalisti” ci credevano: oggi sono davvero in pochi».
Lei insiste sull’origine dialettica del nazionalismo, sulla «tradizione dell’argomentare» che lo sostiene, sul discorso politico come elemento fondamentale della sua riproduzione quotidiana. I nuovi media e l’informazione digitale hanno cambiato questi processi di costruzione dialettica e in generale l’espressione del nazionalismo?
«Ogni ideologia si fonda su una tradizione dell’ argomentare. Nel caso del nazionalismo, ciò include una fede professata apertamente nel carattere della “nostra” nazione come delle altre. Il nazionalismo include anche assunti che sono dati talmente per scontati da venire raramente giustificati o criticati.
Oggi il mondo degli Stati nazionali è considerato normale, “naturale”. I movimenti politici possono dichiarare che alcuni specifici Stati nazionali debbano esistere o meno, ma raramente oggi qualcuno sostiene che non debbano esistere gli Stati nazionali in quanto tali. Questo è il contesto nel quale operano i nuovi media.
Certamente essi hanno un’influenza enorme sulla comunicazione moderna e ne hanno promosso il carattere transnazionale. Tuttavia, non credo che essi stiano erodendo gli stessi confini nazionali e che stiano favorendo l’emersione di un tipo completamente diverso di universo politico, fondato su comunità globali. Certamente non si può escludere che in futuro le comunicazioni globali spingano gli Stati nazionali a scomparire, ma al presente i due fenomeni sembrano coesistere».
«Populismo» è la categoria oggi più discussa da scienziati politici ed esperti in generale per inquadrare l’ ascesa in Occidente di nuovi movimenti fondati su una retorica identitaria, etnica ed escludente («noi contro loro»). Che rapporto c’è tra il nazionalismo tradizionale e il populismo odierno?
Populisti europei riuniti
«È facile considerare il populismo come qualcosa di completamente nuovo, ma ci sono continuità con il passato. Trump, ad esempio, sembra avere uno stile molto diverso dai predecessori e fa appello a chi si sente escluso dalle cosiddette élite. Eppure ha dei precedenti. Per esempio Trump condivide molte caratteristiche personali e politiche con Silvio Berlusconi.
In Europa abbiamo visto una crescita di antieuropeismo, ma certamente in Gran Bretagna ce n’ era molto anche cinquant’ anni fa, soprattutto a sinistra. Ciò a cui assistiamo può essere pericoloso, ma non interamente nuovo, almeno nello specifico dei singoli casi. Tuttavia, ciò che può essere diverso è la crescita simultanea di politiche populiste in così tanti posti diversi – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Svezia, eccetera. Ovunque volgiamo lo sguardo nel mondo economicamente sviluppato, vediamo l’ esistenza di movimenti populisti che danno voce ostentatamente a richieste nazionaliste».
Lei esorta il lettore a notare «lo sbandieramento costante del nazionalismo», anche in tempi in cui il fenomeno è dissimulato. Oggi i simboli del nazionalismo sono mostrati in modo aggressivo contro l’immigrazione, la «tecnocrazia europea», i complotti di nemici invisibili e quant’ altro. Quale dovrebbe essere l’atteggiamento delle élite culturali o semplicemente dei cittadini consapevoli per affrontare questa tendenza?
«In realtà, la tesi di Banal Nationalism non è che i simboli del nazionalismo siano dissimulati, ma che al contrario essi siano sempre apertamente visibili – come lo sono sugli edifici pubblici, sui francobolli, sulle banconote che spendiamo. Questi simboli sono talmente evidenti da non essere nemmeno più notati, in quanto costituiscono lo scenario comune del mondo in cui viviamo indipendentemente dalla nostra appartenenza nazionale. Oggi le forze populiste sventolano consciamente e deliberatamente le bandiere nazionali, specialmente quando fanno campagna contro immigrati e stranieri.
Chiedersi cosa possano fare le “élite culturali” ci porta forse a confrontarci con una parte del problema: forse le élite non possono risolverlo perché potrebbero essere parte del problema stesso. Il senso di disaffezione di chi si sente trascurato è reale. Talvolta la disaffezione ha una dimensione regionale, in quelle aree in preda al declino industriale e agricolo che si sentono dimenticate dalle cosiddette élite metropolitane.
Potrebbe non essere un caso che la crescita del populismo e il nazionalismo apertamente aggressivo prendano piede in una fase di incremento delle diseguaglianze sociali ed economiche. Le nazioni dell’ Occidente sono sottoposte a tensioni nel momento in cui i super-ricchi lo diventano ancora di più mentre i poveri vivono tempi di crescente insicurezza. È un processo che non sembra limitarsi a poche nazioni».
Esistono soluzioni praticabili per uscire da queste difficoltà delle democrazie contemporanee?
«Se questa analisi è corretta, allora possiamo concludere che il neoliberismo globale sta producendo la reazione del populismo nazionale. La soluzione è almeno in parte economica. Il divario tra ricchi e poveri dovrebbe essere fortemente ridotto, innanzitutto con la tassazione, con una distribuzione più equa della proprietà e con una sicurezza lavorativa ben maggiore per chi è più indifeso. Se questo dovesse accadere, allora le società o piuttosto gli Stati nazionali diventerebbero più omogenei economicamente e quindi socialmente. A quel punto, le tensioni che oggi sembrano così pericolose potrebbero iniziare a scemare».
LA SVOLTA GANDIANA DI SALVINI CHE SCOPRE IL DIALOGO– QUANTE STORIE PER QUALCHE BUU ALLO STADIO, UN NEGHER RIMANE UN NEGHER, MA E’ UN PO’ COME LA MAMMA.
Dalla tolleranza zero al dialogo
Ai tempi della scuola non esisteva frase più ricorrente. Era una sorta di mantra che accompagnava le tue giornate. Dall’autobus in cui viaggiavi stipato come sardine prima di essere vomitato fuori come un missile sputato dalla rampa di lancio. All’attesa della campanella fuori scuola, quando arrivavi prima.Il nostro “e spegni quella sigaretta” era “nun mettere ‘e mamme mmiezo”. Alla cosiddetta ricreazione, o comunque a un incontro nei corridoio o nei bagni. Succedeva che talvolta il suggerimento non veniva recepito e allora erano mani che partivano, braccia che si aggrovigliavano, volti che si arrossavano. Insomma le mazzate. Perché ‘a mamma è semp’a mamma. Come ha ricordato il ministro dell’Interno Matteo Salvini in una lettera alla Gazzetta dello Sport. Lettera che va immediatamente consegnata al Moma, o a un qualsiasi Guggenheim. Ma guai a sottovalutarne gli effetti.
Oggi – ma questo è un inciso – l’adolescente di casa mi informa che le nonne sono più utilizzate delle mamme nelle schermaglie verbali. Non lo diciamo troppo in giro sennò schiere di sociologi vorranno spiegarci il perché.
Torniamo a Salvini e alla mamma. Se digitate su google Salvini e tolleranza zero vi esce di tutto. Tolleranza zero contro gli spacciatori. Tolleranza per chi minaccia Ilaria Cucchi. Tolleranza zero per chi ha colpe: sì, proprio così, per chi ha colpe. Tolleranza zero per le discoteche. Tolleranza zero per i carabinieri aggrediti. Tolleranza zero per gli sgomberi. Tolleranza zero per le scuole sicure. Tolleranza zero contro i nomadi. E così via, divertitevi da soli.
A quest’elenco si è aggiunta un’altra voce: i violenti da stadio. “Tolleranza zero contro i delinquenti – così ha scritto alla Gazzetta – ma no a chiusure degli stadi né di settori, sono contrario al divieto delle trasferte. La responsabilità è sempre personale”. Che è un principio anche condivisibile, se solo si mettessero in piedi strumenti per individuare i responsabili.
E ancora: no a sospendere le partite per insulti razzisti. Perché intendiamo difendere i giocatori beccati per il colore della pelle, ma non quelli a cui si insultano le madri? Qual è il confine tra l’insulto razzista e l’insulto e basta?”. E addirittura lo sdoganamento del dialogo: «I problemi non si risolvono solo con la forza, quando è possibile. È meglio dialogare e inchiodare tutti alle proprie responsabilità». Una svolta gandhiana. Un giorno all’improvviso – per rimanere in clima stadio – Salvini scopre il dialogo.
Se tutti i razzisti votassero Salvini, avrebbe la maggioranza bulgara
Ci sono molte chiavi di lettura per interpretare Matteo Salvini. Ma non fermatevi a quella razzista. Che c’è, ovviamente. Salvini sta tutelando il suo bacino elettorale. Ma non solo. Va oltre, vuole ampliare quel bacino. Non solo tutela i cori razzisti, non solo vuole convocare i “tifosi” organizzati al Viminale. Mette la mamma al centro del villaggio. E ora la mamma sarebbe meno importante di un negro? La mamma è sempre la mamma, così come un negher è sempre un negher. Sono le basi. E in fondo quante storie per qualche buu. Salvini mostra di conoscere l’Italia e gli italiani che non sono soltanto quelli che votano per lui. Perché non è affatto vero che tutti i razzisti votino per Salvini. Altrimenti avrebbe una maggioranza bulgara.
Salvini è probabilmente il primo ministro dell’Interno che realmente conosce le dinamiche da stadio. Va detto. Ce ne siamo accorti con Luca Lucci, aggiungerete voi. Anche, ma non solo. È il primo ministro dell’Interno che parla degli stadi non per sentito dire. Le sue tesi sono sposate da tante persone che si definiscono di sinistra e che frequentano gli impianti di calcio. E che da sempre hanno considerato i buu e i cori di discriminazione territoriale alla stregua di cori da stadio. Ora dovrebbero fare un passo avanti, alzare la mano e dire: “sì, ha ragione Salvini, siamo con lui. Lo stadio è una zona franca e lasciatecelo frequentare in santa pace. Anche perché, a ben vedere, dando uno sguardo ai numeri, non accade quasi nulla. Non siamo mica l’Argentina, quello è un paese violento”.
C’è tanta Italia fuori dall’Europa calcistica
Non avranno il coraggio di dire “ha ragione Salvini” ma lo pensano e fino a ieri hanno dette le stesse cose. Hanno da sempre ironizzato sul modello Thatcher. Si sono dati di gomito ricordando quando accompagnavano i duelli Bagni-Junior con i loro buu-buu-buu (più cadenzati, modello scimmia). Salvini, in fondo, li ha smascherati. O, forse, ha offerto un loro un riferimento politico. Del resto se in Italia fosse esistita una reale indignazione sociale per il razzismo, non saremmo mica arrivati agli ululati di San Siro contro Koulibaly. Il fenomeno sarebbe stato arginato molto prima. Manca la comprensione culturale del fenomeno.
Come scritto l’altro giorno, dopo il comunicato della Uefa che ha condannato la mancata sospensione di Inter-Napoli, l’Italia si è messa fuori dall’Europa. Né il presidente della Figc Gravina né il rappresentante degli arbitri Nicchi hanno criticato la direzione di Mazzoleni. E oggi Salvini accorre in loro difesa: “Inter-Napoli non andava sospesa”. E sulla sua linea c’è anche Andrea Agnelli. Senza dimenticare che tutti, tutti i presidenti di Serie A votarono per l’annacquamento delle pene per la discriminazione territoriale. C’è tanta Italia che è fuori dall’Europa calcistica. Salvini, evidentemente, lo sa.
Salvini ha colto nel segno. Ha ricordato Berlusconi quando aprì al condono edilizio. I ma e i però nei salotti buoni della sinistra si sprecavano. “Faremmo finalmente la cameretta per Roberta”. E ora vogliamo paragonare la mamma a un negro?
IL CAMMINO DEI FUNAMBOLI GIALLOVERDI: DAL DECRETO DIGNITA’ ALLA MANOVRA DEL POPOLO, POI TOCCHERA’ AL TEAM MANI DI FORBICE. PROSSIMA L’ABOLIZIONE DELLA POVERTA’. COSI’ LA PENSA GEPPETTO
Castore e Polluce, cavalieri gialloverdi, scalpitano indomiti, sordi a invettive, moniti e richiami dei soliti gufi e varie Cassandre. Vediamo perché, cercando di capire se dietro le mosse di Salvini e Di Maio ci sia una strategia, oppure è solo la sventatezza e l’inesperienza a muovere i passi degli apprendisti stregoni (che sarebbe peggio, meglio non augurarselo).
Le stroncature ad alzo zero di tutta la libera stampa alla nota di aggiornamento del DEF, erano scontate. Scontate, ma poco credibili, perché fatte prima ancora di conoscere i dettagli della manovra- dove di solito si nasconde il diavolo- e non solo computando i fatidici decimali. La stampa estera, in particolare tedesca e il solito N.Y.T., non poteva mancare al coro delle critiche. Ma lì siamo in pieno capitalismo delle finanziarie e multinazionali disinvolte ed esentasse, e ci sta.
Pare che chi conta(va) in Italia, fra piazzale Fochetti, via Monterosa, via Solferino e il Lingotto, oltre a esibire il petto e a “non avere paura” come il PD domenica a Roma, non sembra aspettare altro che la marea dello spead, tifando per il downgrading delle agenzie di rating o confidando nella bocciatura della Commissione UE.
Unica certezza, nel momento in cui scrivo, è che bocciata o meno la manovra, Castore e Polluce hanno già vinto la battaglia che sta loro più a cuore: le elezioni europee.
Infatti, se la U.E. boccia, apriti cielo! La campagna elettorale è bella che fatta, senza nemmeno esporre al ludibrio la faccia un po’ ebra di Junker.
Se non boccia? Ve l’avevamo detto, cazzo!…bisogna alzare la voce, battere i pugni!! E chi se ne frega!, ripeterà con insolita grazia e moderazione il ministro degli Interni. Che potrà fare campagna elettorale nello Stretto di Messina, in vedetta dei “negher” .
Ha fatto scalpore l’apparizione notturna sul balcone di palazzo Chigi di Luigino di Maio. Non è quello delle adunate oceaniche di Palazzo Venezia, ma.. alla sinistra al caviale è piaciuta poco. Per la verità, a me il ragazzo è sembrato più simile a Petrolini, quando si rivolge al pubblico che, prima che apra bocca, lo subissa di BRAVO!! GRAZIE!, BRAVO!!
Castore e Polluce sono un po’ sboroni, vivono molto di slogan e selfie, o comparsate esemplari, come quella di Di Maio sull’aereo “di Renzi”, sono immersi in una realtà allargata la cui narrazione sconfina oramai nei toni mitici ed eroici. Per loro è un po’ come attraversare le colonne d’Ercole, bisogna capirli. Altro che stanza dei bottoni. Insomma, sono “uno dei nostri”, stanno contro il Palazzo, col Popolo, la vogliamo capire o no? Ma che, vogliono fare la rivoluzione? Fanno sul serio? Questa è l’angosciante domanda che aleggia fra piazzale Fochetti, via Monterosa, via Solferino e il Lingotto.
Anche Mario Monti ha detto la sua, parte con cautela il senatore a vita, ma poi sentenzia sul Corriere della Sera: “Possiamo allora concludere che questa manovra è effettivamente maldestra e azzardata. Diciamolo pure, è irresponsabile. Però questo è vero solo dal punto di vista del bene del Paese, dell’interesse generale, della Nazione, del popolo e della sovranità, che verranno tutti danneggiati.” Amen.
Il ministro Tria, che già di suo ha una faccia stropicciata, ha rilasciata una sobria intervista al Sole 24 Ore, in via Monterosa, appunto. Più che da economista argomenta da politico:
“L’ equilibrio e il pareggio di bilancio rimane un nostro obiettivo fondamentale, anche se il percorso per raggiungerlo viene allungato nel tempo per dare spazio all’ esigenza fondamentale di rilanciare la crescita.
Il mio auspicio è che spiegando la manovra che stiamo preparando, e gli strumenti che mette in campo per l’obiettivo centrale della crescita, l’ allarme rientri.”
“Non avviare le riforme avrebbe finito per creare una prospettiva disastrosa: ancora bassa crescita, alta disoccupazione e difficoltà crescente a conciliare la discesa del debito con la stabilità sociale. Bisogna poi valutare che uno degli elementi di crescita è anche la stabilità politica.”
“So bene che nel bilancio c’ era già molto spazio per investimenti e che il problema è rappresentato dal fatto che i fondi non vengono spesi…. Questo ci ha convinti che valeva la pena di scommettere. Ma non è una scommessa senza rete. Nel senso che se vinciamo la scommessa di spendere le somme in bilancio per gli investimenti avremo più crescita, altrimenti si ridurrà il deficit perché le risorse rimarranno a bilancio. Se avremo meno crescita, in altre parole, questo non comporterà un disavanzo maggiore.”
“Il reddito di cittadinanza dovrà essere un intervento duplice: di sostegno al reddito nei periodi di transizione, in cui si cerca il lavoro, e nello stesso tempo di aiuto all’ uscita da sacche di povertà che sono indegne per un Paese come l’Italia, la settima potenza industriale del mondo. Dovrà essere, quindi, contemporaneamente un intervento di stabilizzazione sociale e di politica attiva del lavoro.”
Insomma è una scommessa redistributiva di redditi che (forse) si faranno. Cinque milioni e mezzo di italiani sotto la soglia di povertà non saranno certamente contro questo azzardo. Dice Tria: se non riusciremo a fare gli investimenti i soldi rimarranno lì, nella casse dello Stato, altrimenti reddito di cittadinanza, tagli fiscali, ecc. daranno uno scossone, alzeranno i consumi e il PIL. E se l’azzardo non riesce? Interessante e nuova e la risposta di Tria: inseriremo clausole di salvaguardia, non il famigerato aumento dell’Iva, ma tagli alle spese a cura del club Mani di forbice. Auguri!
Oggi e nel corso della settimana vedremo cosa succederà. Posso sbagliare, ma non mi aspetto reazioni al fulmicotone. Lo scenario è inedito, il governo pure, i mercati saranno più prudenti, magari incuriositi. Il fatto è che soggetti affidabili a cui affidare i propri risparmi o investimenti, sono una specie in estinzione.
Coprire i debiti con altri debiti non è rigorosamente in linea con le dottrine economiche. Ma non siamo in un’epoca di eclissi della politica a favore della finanza, degli esperti a favore dei no-vax, della realtà a favore delle fake-news? Che sia questo un modo per invertire il senso di marcia e tornare un paese normale?
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