UN CARROCCIO AL VERDE

UN CARROCCIO AL VERDE

INCHIESTA DELL’ESPRESSO: anche Matteo Salvini ha usato i soldi rubati da Bossi – L’attuale leader della Lega e Bobo Maroni hanno utilizzato una parte dei 48 milioni di euro frutto della truffa orchestrata dal Senatur e dall’ex tesoriere – Lo dimostrano le carte del partito tra la fine del 2011 e il 2014.

Esclusivo: anche Matteo Salvini ha usato i soldi rubati da Bossi
Matteo Salvini, segretario Lega e ministro degli Interni

Cinque anni fa, quando tutto ebbe inizio, Umberto Bossi usò un’immagine biblica per spiegare il suo intento. «Ho fatto come Salomone: non ho voluto tagliare a metà il bambino», disse mentre si apprestava a lasciare le redini del partito a Roberto Maroni.

Erano i giorni in cui i giornali pubblicavano le prime notizie sullo scandalo dei rimborsi elettorali leghisti, quelli incassati gonfiando i bilanci e usati per pagare le spese personali del Capo e della sua famiglia, come la laurea in Albania del figlio Renzo o le multe del primogenito Riccardo.

Il senso della metafora bossiana era chiaro: piuttosto di dividere la Lega tra chi sta con me e chi contro di me, il Senatùr si diceva pronto a lasciare pacificamente il potere al suo storico rivale. Da allora in poi l’intento di chi è succeduto a Bossi, prima Maroni e oggi Salvini, è sempre stato quello di differenziarsi, di creare compartimenti stagni tra il partito dell’Umberto e quello di oggi, tanto che all’ultimo raduno di Pontida al fondatore non è stato nemmeno concesso il tradizionale discorso dal palco.

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Gli immigrati al posto dei meridionali, il nazionalismo in sostituzione del secessionismo. Pure un nuovo marchio, Noi con Salvini, dotato di satelliti sparsi dal Centro al Sud e rappresentato da personaggi della destra, come in Calabria, o vecchi democristiani votati all’autonomia, come in Sicilia. Nuovi volti (per modo di dire) e nuovi ideali sostenuti con forza proporzionale all’incedere delle inchieste giudiziarie sui fondi elettorali.

Se è vero che negli ultimi anni molto è in effetti cambiato all’interno del Carroccio, c’è qualcosa che è rimasto segretamente invariato. Roberto Maroni preferisce non dirlo, Matteo Salvini lo nega categoricamente. Insomma, gli eredi del Senatùr sostengono di non aver visto un euro di quegli oltre 48 milioni rubati da Bossi e Belsito. «Sono soldi che non ho mai visto», ha scandito di recente l’attuale segretario federale commentando la decisione del Tribunale di Genova di sequestrare i conti correnti del partito dopo la condanna per truffa di Bossi.

I documenti ottenuti da L’Espresso dimostrano però che esiste un filo diretto tra la truffa firmata dal fondatore e i suoi successori. Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati.

Per scoprire i retroscena di questo intrigo padano bisogna tornare al 5 aprile del 2012. E tenere a mente le date. Quel giorno, a poche ore dalla perquisizione della Guardia di Finanza nella sede di via Bellerio, a Milano, Bossi si dimette da segretario del partito. È la prima scossa del terremoto che sconvolgerà gli equilibri interni alla Lega.

Umberto Bossi

Umberto Bossi

A metà maggio diversi giornali scrivono che a essere indagato non è solo il tesoriere Francesco Belsito, ma anche il Senatùr. Il reato ipotizzato è quello di truffa ai danni dello Stato in relazione ai rimborsi elettorali. Il primo di luglio Maroni viene eletto nuovo segretario del partito. E quattro mesi dopo, il 31 ottobre, passa per la prima volta alla cassa. Come certifica un documento inviato dalla ragioneria del Senato alla Procura di Genova, quel giorno l’attuale governatore della Lombardia riceve 1,8 milioni di euro. È il rimborso che spetta alla Lega per le elezioni politiche del 2008, quelle vinte da Berlusconi contro Veltroni. Il primo di una lunga serie. Da qui in poi a Maroni verranno intestati parecchi bonifici provenienti dal Parlamento.

A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo avrà così ricevuto 12,9 milioni di euro. Tutti rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato.

Che cosa cambia quando Salvini subentra a Maroni? Niente, se non le cifre. A metà dicembre del 2013 Matteo viene eletto segretario del partito. L’inchiesta sui rimborsi elettorali intanto va avanti, e a giugno del 2014 arrivano le richieste di rinvio a giudizio: i magistrati chiedono il processo per Bossi. Un mese e mezzo dopo, il 31 luglio, Salvini incassa 820mila euro di rimborsi per le elezioni regionali del 2010. Perché allora il segretario della Lega e aspirante candidato premier per il centro-destra continua a sostenere che lui quei soldi non li ha mai visti? E se li ha visti, come poteva non sapere che erano frutto di truffa?

Due mesi dopo aver incassato gli oltre 800 mila euro, Salvini e la Lega si costituiscono infatti parte civile contro i compagni di partito. Si sentono vittime di un imbroglio, di una truffa che ha sfregiato il vessillo padano. E vogliono essere risarciti. La nuova dirigenza è dunque consapevole della provenienza illecita del denaro accumulato sotto la gestione di Bossi. Ma il 27 ottobre, solo venti giorni dopo l’annuncio di costituirsi parte civile, Salvini fa qualcosa che appare in netta contraddizione con quella scelta: ritira altri soldi. Questa volta la somma è piccola, poco meno di 500 euro: l’ultima tranche di rimborso per le elezioni regionali del 2010.

La sostanza però non cambia. Sono denari ottenuti con la rendicontazione gonfiata firmata da Belsito. Fatto di cui a quel punto è dichiaratamente convinto anche Salvini. Il quale, due giorni dopo l’ultimo prelievo, riceve persino una lettera dallo storico avvocato di Bossi, Matteo Brigandì. «Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato», si legge nella missiva con la quale la vecchia guardia lancia un messaggio chiaro al nuovo gruppo dirigente: voi ci accusate di aver rubato quattrini, allora sappiate che i soldi che avete in cassa sono il profitto della truffa, e usarli vuol dire diventare complici del reato.

Roberto Maroni

Roberto Maroni

Il denaro, più che l’ideologia, è dunque il collante tra l’epoca di Bossi, l’interregno di Maroni e il presente firmato Salvini. Le tre età del partito della Padania intrecciate attorno a una vicenda che tutti vogliono dimenticare in fretta. Talmente in fretta da ritirare persino la costituzione di parte civile davanti al giudice.

Già, perché solo un mese dopo essersi dichiarato vittima della truffa targata Bossi-Belsito, Salvini fa marcia indietro. Come a dire: chiudiamola qua, scordiamoci il passato e andiamo avanti. Una scelta travagliata, non da tutti condivisa. All’interno della Lega, infatti, nei primi mesi del 2014, c’era chi voleva mostrare pubblicamente la rottura col passato. Altri, invece, parteggiavano per la politica della rimozione. In questo contesto matura l’accordo di conciliazione”con l’avvocato di Bossi, nel quale la Lega rinuncia a costituirsi parte civile. A un patto però: il legale di fiducia del Senatùr avrebbe dovuto accantonare ogni pretesa di denaro che il partito gli doveva, circa 6 milioni di euro. Infine, a Bossi sarebbe andato un lauto vitalizio.

Tutto risolto, dunque? Macché. Salvini e Maroni vengono meno al patto. E danno mandato all’avvocato Domenico Aiello, legale del governatore lombardo, di procedere con la costituzione di parte civile. Uno smacco al vecchio amico Bossi, a cui poco dopo segue un altro colpo di scena. A novembre durante l’udienza preliminare contro B&B, Aiello ritira l’atto di costituzione. In pratica la Lega non chiede più i danni per la truffa. Un’idea di Salvini, motivazione ufficiale: «Non abbiamo né tempo né soldi per cercare di recuperare soldi che certa gente non ha», spiegò l’europarlamentare appena eletto segretario del Carroccio. Una mossa che sorprese persino il governatore della Lombardia, Maroni, che con Aiello aveva fatto il possibile per chiedere i danni agli imputati leghisti.

La sensazione di chi il partito lo frequenta da venti e passa anni è che sia stata una ritirata strategica, per rappacificare le opposte fazioni ed evitare rivelazioni scomode. Soprattutto in merito ai soldi lasciati in cassa da Bossi, quelli finiti al centro delle inchieste di tre procure.

Francesco Belsito

Francesco Belsito

I bilanci della Lega raccontano, infatti, meglio di qualsiasi dichiarazione politica che cosa è successo in questi anni ai soldi dei Lumbard, o meglio di tutti i contribuenti italiani. Il primo dato evidente è che le cose andavano molto meglio, almeno dal punto di vista finanziario, quando sulla plancia di comando c’era Bossi. Con lui al vertice i bilanci degli ultimi anni si sono infatti chiusi sempre in positivo. Le cose cambiano nel 2012, quando arriva Maroni: per la prima volta la Lega chiude i conti in rosso, con una perdita di 10,7 milioni di euro. L’anno seguente, il primo interamente firmato da Bobo, le cose vanno persino peggio: il bilancio evidenzia una perdita di 14,4 milioni. Colpa della diminuzione dei rimborsi elettorali e del calo delle donazioni private, si legge nei resoconti padani. Ma non è solo questo.

Nonostante i dipendenti diminuiscano, i costi sostenuti dalla Lega aumentano. In particolare alcune voci, come quella denominata “spese legali”, per cui il partito arriva a sborsare oltre 4,3 milioni di euro tra il 2012 e il 2014. Un bella somma, oltretutto senza neppure essersi costituita parte civile nel processo contro Bossi e Belsito.

Com’è possibile allora aver speso tutti quei soldi in avvocati? I bilanci non lo spiegano, ma un documento ottenuto da L’Espresso aiuta a capire meglio come sono andate le cose. È un contratto datato 18 aprile 2012. Bossi si è dimesso da due settimane e il Carroccio è retto dal triumvirato Maroni-Dal Lago-Calderoli. Sono loro ad affidare la consulenza legale allo studio Ab di Domenico Aiello, già avvocato personale di Maroni e in ottimi rapporti con il magistrato milanese che sta seguendo l’inchiesta, Alfredo Robledo. Nel contratto si specifica che la consulenza riguarderà proprio i procedimenti penali che coinvolgono Bossi e i rimborsi truccati. Si tratta delle indagini in corso a Milano, Napoli, Genova e Reggio Calabria, ciascuna segnalata con il relativo numero di fascicolo.

Un lavoro ben pagato: per Aiello la tariffa sarà di 450 euro all’ora, costo che sale a oltre 650 euro se si aggiungono – come da prassi – spese generali, contributi previdenziali e imposte. Insomma non male per l’avvocato calabrese che, qualche anno dopo, Maroni piazzerà nel consiglio d’amministrazione di Expo, mentre la moglie, Anna Tavano, finirà per un periodo in Infrastrutture Lombarde, società controllata direttamente dalla Regione.

Va detto che Aiello, così come la moglie, ha un curriculum di tutto rispetto. Tra i suoi clienti più celebri, oltre a Bobo Maroni spicca l’ex presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua. Poi ci sono gli incarichi negli organismi di vigilanza: Consip, Siemens, Conbipel, Veolia e la Sparkasse di Bolzano. In quest’ultima banca il presidente del Consiglio di amministrazione si chiama Gerhard Brandstätter. Brillante avvocato del Sudtirolo, che con Aiello, nel 2011, ha fondato lo studio associato AB, lo stesso scelto dalla Lega.

Con Maroni traghettatore, le camice verdi apriranno anche un conto “easy business” e un conto deposito presso la banca altoatesina, depositando in totale qualche milioncino. È il periodo in cui si tentava di mettere al sicuro il patrimonio del partito, dalle cordate bossiane e forse anche dai giudici. Matura così l’idea, poi tramontata, di creare un trust in Sparkasse per blindare quasi 20 milioni.

I bilanci non confermano solo questo. Spiegano anche perché oggi i conti del partito sono a secco. E quale la strategia scelta per evitare il sequestro effettivo dei soldi. Nel 2015, quando è Salvini a comandare, la ricchezza della Lega cala, infatti, vistosamente. Il patrimonio netto passa da 13,1 milioni dell’anno precedente a 6,7 milioni. Il motivo è spiegato chiaramente nella relazione sulla gestione finanziaria: i soldi del partito sono stati trasferiti alle sezioni locali, 13 in tutto, dotate nel frattempo di codici fiscali autonomi.

È così ad esempio che due giorni prima di Natale la sezione Lombardia, fino ad allora sprovvista di risorse finanziarie, diventa titolare di un patrimonio da 2,9 milioni di euro. Custoditi per lo più su conti correnti bancari e postali. Una partita di giro, insomma. Il risultato? Al termine del 2016 la Lega aveva una disponibilità liquida di soli 165mila euro, mentre le sue 13 sezioni locali messe insieme registravano somme per 4,3 milioni. La nuova architettura finanziaria non ha però impedito ai magistrati di sequestrare le ricchezze del Carroccio. Come ha dichiarato lo stesso Salvini, al momento non è stato bloccato il conto corrente della Lega nazionale, ma quelli delle sezioni locali. «Un punto su cui daremo battaglia in sede legale», assicura una fonte del Carroccio che non vuole essere nominata.

C’è però ancora una questione da risolvere. Il tribunale di Genova, nei giorni scorsi, ha deciso di bloccare il sequestro. I giudici hanno annunciato di aver congelato poco meno di 2 milioni. Eppure, come detto, alla fine dell’anno scorso sui conti della Lega c’erano 4,3 milioni. Mancano dunque all’appello oltre 2 milioni. Possibile che la Lega li abbia spesi in questo 2017. O anche che siano stati trasferiti su altri conti. Un’ipotesi, questa, impossibile da verificare. Perché “Noi con Salvini”, il movimento creato tre anni fa dal nuovo leader del Carroccio per conquistare il Centro-Sud, non ha mai pubblicato un bilancio.

Dubbi e interrogativi sollevati dai nemici interni del leader in felpa. Salvini potrà dire che a lui certe questioni “politichesi” non interessano e che preferisce parlare di immigrazione, euro, lavoro. Ma all’interno del suo partito i bossiani non dimenticano. E i mal di pancia iniziano a diventare veri e propri tumulti silenziosi. Pare che siano persino pronti a muoversi autonomamente per le prossime elezioni politiche. Una forza che ruberebbe al Capitano il 2-3 per cento.

Del resto non è facile disfarsi del Senatur, fu il primo a dare avvio a una tipica usanza leghista: scaricare i compagni di partito che osavano mettere in dubbio la sua autorità. Bossi fece così con l’ideologo della secessione Gianfranco Miglio. Con la stessa moneta lo hanno ripagato Maroni e Salvini. E ora sotto a chi tocca.

Articolo apparso su L’Espresso (qui) a firma di GIOVANNI TIZIAN e STEFANO VERGINE  

 

MIGRANTI O MERCE?

MIGRANTI O MERCE?

IL FALSO PROBLEMA DELLE ONG E LE INEDITE CARATTERISTICHE DEL FLUSSO DI MIGRANTI SULLE NOSTRE COSTE- MA SALVINI NON S’E’ ACCORTO CHE DI QUESTO PASSO ARRIVEREMO AI MIGRANTI FORZATI?– GLI APPETITI ECONOMICI DELLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA CHE SA CHE IN AFRICA UN MIGRANTE E’ SOLO CARNE DA MACELLO, IN EUROPA MERCE DI VALORE- COSI’ LA PENSA GEPPETTO.

 

La crisi dovuta agli immigrati è ancora la grande incompresa della politica, in Italia e in Europa? Si direbbe di sì.

Una cosa è certa: ci siamo resi conto tardi e male delle caratteristiche del problema, abbiamo continuato a parlare di emergenza, a sproposito e a dispetto della logica. Nel frattempo, le cose sono cambiate sotto i nostri occhi e non ce ne siamo accorti. Almeno se prendiamo per buone le dichiarazione dei politici nostrani ed europei e le poche cose che riescono a fare. Tutto dimostra che continuiamo a capirci poco del fenomeno, complice anche una stampa incapace di una vera analisi, se non fungere da cassa di risonanza.

 

C’è invece qualcuno che il fenomeno pare averlo capito assai bene, e lo sta sfruttando alla grande e con parecchio lucro. E che è intenzionato a farlo durare ancora parecchio.

Campo migranti di Choucha, Tunisia 2014, foto di Samuel Gratacap

Questo alcuno ha il volto vecchio di sempre, ma il metodo è ancora più efficace, pervasivo, ramificato, manageriale. Anche fra la delinquenza (chiamatela come volete, ogni etichetta va bene: mafia, ‘ndrangheta, affaristi, speculatori, capi tribù, funzionari corrotti, trafficanti vari è la stessa cosa ) sta facendosi largo una nuova generazione, più acculturata, che “spicca” l’inglese, fa i week-end a Monaco, guarda verso i paesi emergenti, parla e si muove come business-man.  Non mancano, come sempre, i complici, magari comprimari locali, certamente meno pretenziosi, e qualche anima bella (quelle non mancano mai), e perchè no qualche strenuo e solitario idealista, assolutamente in buona fede (lo dico con convinzione), pronto a lasciare famiglia e a rinunciare alle ferie per solcare i mari dove gli sventurati migranti si avventurano.

Un amico che porta le stellette e che viaggia in missione per il mondo, durante un caffè, mi dice:”La gente non si fa le domande giuste sul problema. Solo all’inizio l’emigrazione era alimentata dalle guerre, dalla fame, dalle violenze. Spinti dalla disperazione i migranti andavano, pagavano gli scafisti, poi una volta sbarcati si dileguavano come fantasmi fra Italia, Francia, Germania o più sù. Quando non finivano prima in galera o a poltrire nei centri di identificazione per mesi. Ho letto che per un sbarco gli scafisti chiederebbero migliaia di dollari. Ma quando mai li hanno visti tanti soldi quei disgraziati? Qualcosa non torna. Chiedersi, come fa Salvini, chi finanzia le navi umanitarie e se i soccorritori hanno legami con i trafficanti non sono le domande giuste. Qualcuno ci speculerà pure, ma non credo le ong, comunque non sta lì la radice del problema.

Quali ong operano nel Mediterraneo

Al momento sono 5 le ong dotate di navi, più o meno grandi, per il salvataggio in mare dei migranti che tentano di arrivare dalla Libia all’Europa. Si tratta della ong spagnola Proactiva open arms, della Sea Watch, delle ong Sos Mediteranee e Medici senza frontiere, che gestiscono insieme la nave Aquarius, e poi Sea-eye e Mission Lifeline.

 

Diceva giorni fa il comandante della nave Astral della Proactiva Open Arms:  “Decine di volte ho ripetuto le stesse cose, siamo coordinati dalla guardia costiera italiana, eseguiamo gli ordini della guardia costiera italiana. Ora però non è più così, la guardia costiera italiana ha passato ai libici il coordinamento di quel tratto di mare, ma i libici non hanno abbastanza mezzi per prestare soccorso e controllare una zona di mare tanto vasta; inoltre la Libia non può essere considerata un posto sicuro in cui sbarcare i migranti, perché non ha sottoscritto alcune convenzioni marittime internazionali e perché nel paese sono state documentate violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani, come la compravendita di esseri umani e la tortura.”

Campo migranti Choucha, Tunisia,2014. Foto di Samuel Gratacap.

Dico che Salvini non si fa le domande giuste (e se pensa di fermare tutto fermando le ong sbaglia di grosso) per questa considerazione: ll flusso migratorio dall’Africa in Europa è ormai un business troppo grande e ha attirato la voracità di criminali internazionali che hanno capito prima e meglio che affare poteva diventare, tanto che hanno spostato l’attenzione dai soliti traffici di armi, smercio della droga, prostituzione, tanto quelli vanno per conto loro e alla grande. Le navi delle ong non c’entrano, nè la loro presenza ha aumentato i flussi.

Nel 2011 la Commissione globale per le politiche sulle droghe in Italia, ha documentato che il consumo annuale e “la scala globale dei mercati di droga illegale, ampiamente controllati dal crimine organizzato […] è nei fatti cresciuto in modo spettacolare. Proprio a causa di questa crescita vertiginosa, lo scenario attuale è in costante evoluzione: le organizzazioni criminali si ramificano sempre più, Internet sta cambiando in profondità il mercato, e la destabilizzazione geopolitica di alcune aree comporta la creazione di nuove rotte e di nuove opportunità. (stima 12 miliardi di euro ogni anno)

Nelle prime pagine della relazione annuale sullo stato delle tossicodipendenze, presentata al Parlamento nel settembre del 2015, si può leggere che l’Italia “grazie alla sua baricentrica posizione nel Mar Mediterraneo” e ai suoi 8mila chilometri di coste rappresenta “una delle principali porte d’accesso delle droghe al vecchio continente,” il quale è “ancora oggi il primo mercato mondiale di consumo dell’eroina e il secondo, dopo il Nord America, della cocaina.”

 

Tutto fa pensare- continua l’amico stellato- che le organizzazioni criminali, che hanno messo le mani sul traffico migratorio, si siano organizzate lungo tutta la filiera, stringendo accordi con i soggetti interessati al business. La filiera, in parte clandestina, in parte sommersa, ben ramificata e protetta da complicità, va dalla raccolta di questi disperati, alla detenzione pre imbarco, all’imbarco. Prosegue, in forme diverse e ibride, anche nella fase di accoglienza nei vari centri per migranti in Italia? Viene più di un sospetto. Salvini, controlla questi centri e chi li gestisce, distinguendo gli onesti da chi ci fa la cresta e non rispetta gli standards? Si è posto il problema di come stroncare le evidenti diramazioni verso il caporalato, le criminalità locali che regolano prostituzione, droga, accattonaggio, ecc? Sono rapporti intricati, difficili decifrare, da documentare a livello di prova processuale, ma che non possono non esserci. Illegalità, irregolarità, lavoro sommerso, evasione delle tasse, distrazione dei fondi pubblici sono fenomeni contugui. Si muovono sotto un’unica regia? Queste sono le domande giuste. E lì che bisognerebbe colpire. Altrimenti si potrebbe arrivare al paradoso dei migranti “forzati” loro malgrado, perchè, se in Africa sono considerati solo carne da macello, in Europa invece merce di valore.


Centro migranti Zawiya, Libia, foto di Samuel Gratacap

Conclude l’amico: ” Perchè non costituire un nucleo centrale interministeriale, composto da polizia, carabinieri, esercito, guardia costiera, magistrati e alti fuzionari con queste competenze e per questi scopi? Come ministro dell’interno Salvini ne avrebbe le competenze politiche.Coordinato efficacemennte tale nucleo potrebbe combattere il fenomeno, ma soprattutto capirlo e portare alla luce la sua reale natura. Qualche proclama in meno e lavoro in più, magari non porteranno subito voti, ma restituirebbero fiducia agli italiani, anzichè farli smarrire per la paura di un fenomeno misconosciuto.

In copertina: Centro di detenzione Zawiya, Libia-2014 . Foto Samuel Gratacap

 

 

 

 

 

 

OTTANTOTTO GIORNI PER NASCERE. QUANTI PER MORIRE?

OTTANTOTTO GIORNI PER NASCERE. QUANTI PER MORIRE?

 

 

OTTANTOTTO GIORNI PER NASCERE, OTTANTOTTO PER MORIRE?- LA STRADA PER IL NUOVO GOVERNO E’ TUTTA IN SALITA- QUALCUNO LO SOFFOCHERA’ NELLA CULLA O AVRA’ ALMENO IL TEMPO DI CONSUMARE LA POCA BENZINA? COSI’ LA PENSA GEPPETTO  

 

Per il neo presidente del Consiglio Conte, durerà meno di cento giorni la luna di miele che accompagna di solito l’avvio di un governo.

Lo sconosciuto professore di diritto privato potrebbe essere una sorpresa, se non fosse stretto fra due vice che già guardano in direzioni diverse. Di Maio, a rabberciare il traballante piedistallo su cui Grillo lo mantiene in mancanza di alternative; Salvini, per cannibalizzare quel che resta di Forza Italia.

Nei prossimi giorni non dovremo guardare più i mercati per misurare la salute del governo: Trump, con l’accordo dei fondi di investimento americani, continuerà a darci una mano, rastrellando i bot emessi dal Tesoro. Un’Italia debole o a gambe all’aria è una prospettiva, evidentemente, meno allettante di una Germania intransigente, o di un Macron che segue sulla scia, come un rimorchiatore la nave ammiraglia.

Immagine tratta dal sito Dagospia

Questo è un governo che, più presto che tardi, si farà male da sé. Non tanto per l’inesperienza (almeno Salvini non è certo di primo pelo), ma perché non potrà contare sul solido terreno di una visione riformista, cioè di un’agenda di cose praticabili e compatibili. Si nasce e ci si ingrossa con l’incitamento delle piazze, ma si governa bene solo in solitudine, perché governare vuole dire scontentare.   

Un’agenda di governo, per non essere un libro di sogni, deve avere almeno due caratteristiche: l’indicazione delle priorità e i mezzi per realizzarle. Il famoso “contratto”, purtroppo, non ha né l’una né l’altra.

Carlo Cottarelli, paziente,irreprensibile e fugace presidente incaricato.

Si potrebbero fare alcuni esempi, affinché ciò non sembri una affermazione prevenuta. Ma i giornali ne hanno parlato in lungo e in largo e finirei per annoiarvi. Basti dire che nelle 57 pagine, nei 30 paragrafi scritti con una prosa incerta e burocratica, compaiono solo 3 (dico tre) cifre: i 780 euro del famoso reddito di cittadinanza, i 3000 euro di detrazione fiscale per le famiglie, i 5000 euro delle pensioni d’oro (netti precisano). Stop. Il buon Cottarelli dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani deve essersi scompisciato leggendo il testo, lui abituato a maneggiare numeri e bilanci pubblici. Secondo Cottarelli il contratto di governo tra Lega e Movimento 5 Stelle ha costi compresi tra 108,7 e 125,7 miliardi, mentre le coperture indicate ammontano a 550 milioni di euro. La conclusione amara è la seguente: Di Maio e Salvini hanno fatto la lista della spesa, ma non hanno soldi, non dicono come intendono reperirli, né si sa da dove vorranno iniziare.

E pur vero che i programmi politici si fanno e poi si chiudono in un cassetto, almeno qui da noi. Sarà per questo che i due capi politici hanno voluto sottoscrivere il “contratto” con autentica notarile. Tanto per fidarsi. Anche Salvini l’aveva chiesto a Berlusconi, come patto di fedeltà. Abbiamo visto com’è andata. Uno al governo, l’altro all’opposizione.

Eppure un bilancio occorrerà farlo e subito, anche perché si preannuncia una manovra correttiva sui conti 2018 di circa 5 miliardi. Giustamente scriveva il Sole 24 Ore: “In politica quello fra numeri e parole è sempre un rapporto complicato, e il «contratto di governo» chiuso da M5 S e Lega è un documento politico e non una manovra di bilancio. Per tradurlo in pratica, … servono però decreti e leggi di bilancio, con tanto di «bollinatura» da parte della Ragioneria generale. E qui gli affari si complicano.”

Non serve il bollino, invece, per altre cose che non costano, come la legge sul conflitto di interessi, le manette agli evasori, la lotta alla corruzione. I lumbard salviniani o  i ceti parassitari del Sud di Di Maio, lo consentiranno?

In altri punti del contratto, di chiara ispirazione leghista, si intende mettere mano ai diritti civili, al diritto di famiglia, ai vaccini, agli asili nido, alla difesa personale. Se questo disegno restauratore fosse attuato sarebbe un ritorno al passato, con la cancellazione dei numerosi provvedimenti che sono stati fiori all’occhiello dei governi Renzi e Gentiloni. 

Non resta che aspettare, solo allora potremmo capire il profilo culturale di questo governo, e se definirlo di cambiamento o di restaurazione, se ce ne darà il tempo.

 

Alcune delle foto sono tratte dl sito Dagospia. com, che si ringrazia.

 

Guida o gendarme del mondo?

Guida o gendarme del mondo?

Obama-Putin

Incontro di vertice Obama e Putin

 

Geppetto aveva già commentato a caldo (intra: Guerra o non guerra, questo è il problema?) il discorso del presidente USA Obama alla nazione americana, l’ultimo della sua seconda presidenza. Le cose che ora scrive Ida Dominijanni si muovono sulla stessa linea di apprezzamento di quanto fatto da Obama in questi anni, ma soprattutto sono motivo di riflessione (o dovrebbero esserlo) per i governati europei, mai apparsi così inermi e divisi, inadatti per deficit di statura politica ed etica, a fronteggiare i gravi problemi che attraversano il mondo. La verità sta tutta lì: per anni abbiamo demonizzato l’imperialismo americano, oggi che esso mostra una faccia diversa, quella della speranza e della fiducia, che sostiene un mondo multipolare, più equilibrato e biopoliticamente più pulito, ci rammarichiamo che non faccia risuonare a nostra difesa i suoi scarponi militari in giro per il mondo. E tremebondi ci inventiamo una guerra di civiltà e di religione che non esiste. Così, la crisi delle democrazie occidentali appare sempre di più non l’effetto di eclissi dei valori fondanti, ma della rinuncia a volerli riaffermare. Per inciso: è significativo l’articolo in quanto proviene da una donna, filosofa e politica, da sempre di sinistra. Segno che, quando si tolgono i paraocchi, si riesce a ragionare anche da quelle parti. Magari mettendo a frutto la lezione di storici rigorosi come Lucio Villari, di cui Dominijanni è stata allieva.

 

Ida Dominijanni

La giornalista Ida Dominijanni

Lo sguardo lungo della storia e degli storici renderà prima o poi più giustizia alla presidenza di Barack Obama di quanta ne abbia ricevuta fin qui dalla cronaca e dai contemporanei. Ed è alla storia più che alla cronaca che Obama guarda nel suo ultimo discorso sullo stato dell’unione, tutto volto a lasciare dietro di sé – a contrasto con l’aggressività rancorosa di Donald Trump – una scia di speranza e di fiducia in un presente-futuro tanto carico di incognite quanto ricco di promesse. Niente di più riduttivo, tuttavia, che vedere in questa scia solo un appello all’ottimismo, magari traendone ispirazione per perseverare, qui in Italia, con la retorica governativa della nave che va malgrado gufi e jettatori. Nel testamento che il primo presidente nero degli Stati Uniti consegna al suo paese e al mondo c’è tutt’intera la rotazione che egli ha imposto, o proposto, al discorso pubblico occidentale durante il suo doppio mandato. Una rotazione che, se sette anni fa convocava un’America devastata dalla reazione neoliberista e neocon al trauma dell’11 settembre, oggi convoca con altrettanta forza, o dovrebbe, un’Europa che, sotto i colpi del terrorismo, dell’immigrazione, della crisi economica, si disfa e si immerge nella stessa retorica dello scontro di civiltà già sperimentata e consumata sull’altra sponda dell’Atlantico.

Per Obama il punto da ribadire è ancora come gli Stati Uniti ‘possano essere una guida per il mondo, senza diventarne il gendarme’

Donald Trump

Il miliardario americano Donald Trump, sfidante per la Casa Bianca

Dunque non è per caso se tra riforme rivendicate e compiti da portare a termine, tra un richiamo all’America di sempre e un’esortazione all’America che verrà, Obama affronta di petto il punto che nemici e amici, negli Stati Uniti e in Europa, gli rimproverano: il declino della potenza americana e della sua forza ordinatrice sulla scena internazionale, un declino di cui Obama stesso sarebbe complice se non responsabile. Strano rimprovero, in verità. Non era precisamente questo – la gestione della fine dell’unilateralismo americano – uno dei pilastri dichiarati del suo programma originario? Non si trattava di accompagnare un ridimensionamento non solo dell’impegno militare, ma anche della retorica e della hybris della più grande potenza del mondo? Eppure è proprio questo che non gli viene perdonato, quasi fosse un lutto insostenibile per gran parte dell’opinione pubblica americana e mondiale.

Detroit, curiosi e fans salutano Obama

Detroit, curiosi e fans salutano Obama

Perciò per Obama il punto da ribadire è ancora quello: come gli Stati Uniti “possano essere una guida per il mondo, senza diventarne il gendarme”. Tra le due condizioni, quella della guida e quella del gendarme, c’è di mezzo la rotazione di cui sopra sull’interpretazione del presente. Un tempo “carico di pericoli”, eppure occasione di un cambiamento decisivo di prospettiva. Perché su una cosa non ci piove: gli Stati Uniti restano “la nazione più potente sulla terra. Punto”. Ma non può continuare a esercitare questa potenza lanciando bombe sui civili, o ricostruendo paesi distrutti: “Questa non è leadership, è la ricetta per finire nel pantano, come insegnano il Vietnam e l’Iraq”. C’è un altro approccio possibile, multilaterale e globale, l’approccio che Obama rivendica su questioni non solo geostrategiche (Iran, Cuba, Siria, il mutamento epocale in corso in Medio Oriente, l’espansione cinese e le nuove ambizioni russe), ma anche biopolitiche (la lotta contro il cancro, l’aids, l’ebola, il cambiamento climatico, l’investimento nella ricerca e nelle tecnologie), su una scala di priorità che comporta non la sottovalutazione ma il dimensionamento del terrorismo internazionale: fanatismo criminale da estirpare anche con l’uso della forza, ma non religione, o civiltà, cui contrapporre politiche identitarie basate sulla razza o sul culto. Lo scontro di civiltà è da archiviare, “non in nome del politicamente corretto ma della pluralità e dell’apertura che fanno la forza e la diversità dell’America”. Piuttosto che rimpiangere il gendarme del mondo, l’Europa dovrebbe drizzare le orecchie.

Salvini

Matteo Salvini, segretario della Lega

Non solo su questo, del resto. Non si è ancora sentita, nel vecchio continente ostinatamente attaccato alla precettistica ordoliberale, la voce di un leader in grado di nominare uno per uno e senza infingimenti gli effetti devastanti di una crisi che la sua politica economica pure ha avuto l’indubbio merito di contenere: disuguaglianze, concentrazione della ricchezza, precarizzazione del lavoro e della vita. Obama può ben rivendicare che negli Stati Uniti il peggio è alle spalle, l’economia ha ripreso a girare ed è salda, la disoccupazione è scesa ai minimi storici e il lavoro si moltiplica. Ma sa e dice chiaro che perché “la nuova economia” crei più che distruggere sono necessarie scelte politiche di parte: creazione di nuovi posti di lavoro contro la delocalizzazione, investimenti – non bonus – nella scuola e nell’università pubblica, nuovi sistemi di formazione e tutela per chi è costretto a passare da un lavoro all’altro, aumenti dei salari a scapito dei profitti (“non è colpa degli immigrati se i salari sono fermi”). In politica economica come in politica estera l’ottimismo di Obama, malgrado i ripetuti appelli all’unità del suo popolo e dei suoi rappresentanti, è un ottimismo che sceglie, divide, taglia: non è una retorica comunicativa, è una scommessa politica che sfida le ambivalenze e le contraddizioni di un presente a rischio.

Martin Luther King

Il leader nero Martin Luther King

Così pure, infine, sulla concezione della democrazia e della politica. A Washington il vento del disincanto, del rancore di tutti contro tutti e della degenerazione del conflitto politico soffia non meno che a Roma o a Bruxelles, ma dalla crisi della democrazia non c’è modo di uscire se non riattivando la democrazia: “Non basta cambiare un deputato o un senatore e nemmeno un presidente: dipende da voi, dalla vostra capacità di essere cittadini non solo il giorno delle elezioni, di esigere diritti e prendere parola dalla parte dei più vulnerabili”. Dipende dalle voci tacitate in una sfera pubblica che ascolta solo chi sa gridare di più, dai Trump ai Salvini di turno. “Le voci della verità disarmata e dell’amore incondizionato” in cui confidava Martin Luther King. Se quelle voci sono riuscite o riusciranno a farsi sentire, se l’America è riuscita nella sua storia o riuscirà nel prossimo futuro a rispondere alle sfide del cambiamento “senza aderire ai dogmi di un tranquillo passato” ma spostando la frontiera sempre in avanti, non è stato e non sarà grazie a una dote antropologica, né, si potrebbe aggiungere, a uno scongiuro ripetuto ogni sera in tv. È stato e sarà “grazie alle scelte che facciamo insieme”.

Ida Dominijanni, giornalista, articolo apparso sulla rivista Internazionale

 

 

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