Una delle più straordinarie meraviglie di Venezia si trova, come spesso accade nella città lagunare, in una posizione defilata, quasi nascosta: a Palazzo Grimani, la residenza di una delle famiglie che più incisero sulla storia di Venezia, ci si arriva infatti percorrendo un vicolo, ramo Grimani, che parte dalla stretta ruga Giuffa poco prima del ponte che conduce direttamente nel campo di Santa Maria Formosa.
Le vicende di questo edificio rimontano alla fine del XV secolo, quando il patrizio Antonio Grimani (Venezia, 1434 – 1523), che prima di far carriera politica fece fortuna coi commerci in Oriente e fu poi eletto doge nel 1521, acquistò la dimora e la donò poi ai figli, e a partire dall’atto di donazione di Antonio il palazzo divenne la residenza dei Grimani “di Santa Maria Formosa”, così detti per distinguerli dagli altri rami della famiglia che abitarono in altri palazzi della città. L’edificio fu tuttavia ampliato e restaurato nel Cinquecento dai fratelli Vettore e Giovanni Grimani, nipoti di Antonio. Fu però soprattutto Giovanni Grimani (Venezia, 1506 – 1593), patriarca di Aquileia tra il 1545 e il 1550 e poi di nuovo tra il 1585 e il 1593, a promuovere i lavori più importanti a seguito della scomparsa del fratello, avvenuta nel 1558, e a dare all’edificio l’impronta che ancora lo contraddistingue, su modello delle antiche domus romane e secondo uno stile che guardava alle novità dell’architettura contemporanea, soprattutto a quella che si produceva a Roma.
Giovanni Grimani fece aprire le grandi logge del cortile, chiamò Federico Zuccari a decorare la volta dello scalone monumentale, adornò la residenza di splendide opere d’arte che andarono ad arricchire la già cospicua raccolta di famiglia (in particolare il cardinale Domenico, figlio di Antonio e zio di Giovanni e Vettore, era riuscito a radunare numerose antichità romane durante gli anni in cui visse a Roma, e divenne uno dei collezionisti più famosi della sua epoca), e soprattutto fece realizzare la Tribuna Grimani, l’ambiente più noto, fastoso e celebrato del Palazzo, il cui allestimento è stato eccezionalmente ricostruito nel 2019 con l’iniziativa Domus Grimani che ha radunato nell’edificio di ramo Grimani le antichità che un tempo erano qui custodite e che ora sono invece conservate al Museo Archeologico di Venezia (un’iniziativa a cura di Daniele Ferrara e Toto Bergamo Rossi che è poi proseguita a maggio 2021 con la seconda tappa del progetto Domus Grimani, il riallestimento della Sala del Doge: il tutto realizzato anche grazie al supporto di Venetian Heritage, che ha finanziato il progetto espositivo grazie al contributo della Helen Frankenthaler Foundation in collaborazione con Gagosian, di un anonimo donatore e della partecipazione di Civita Tre Venezie). Il riallestimento è stato possibile grazie alla rilettura dei documenti dell’epoca: lo schizzo tracciato da Federico Zuccari nel 1582 e gli inventari redatti nel 1593 da Lorenzo Massa e Pietro Pellegrini, segretari della Repubblica incaricati di registrare i beni posseduti da Giovanni Grimani dopo la sua scomparsa (non ci è però giunto il libro dei disegni che riproduceva con esattezza la sistemazione delle sculture nel palazzo).
Situata al piano nobile del palazzo, nell’ala nord fatta costruire dallo stesso Giovanni Grimani proprio per fornire una collocazione alla raccolta, la Tribuna, che si presenta al visitatore dopo un’infilata di grandi stanze, era stata progettata per accogliere le più preziose statue antiche della collezione di famiglia: il nobile la immaginò come uno spazioso e scenografico spazio quadrangolare a pianta centrale, un’aula con ampie nicchie timpanate, coperta da una volta a vele decorata con cassettoni a stucco (ispirati alla decorazione del Pantheon di Roma), in grado di ricevere luce da un ampio lucernario. Le pareti sono divise in verticale da grandi pilastri a bugnato, sormontati da una trabeazione continua in marmo rosso di Verona, a sua volta sovrastata, al centro di ogni parete, da un timpano. Nelle nicchie, sopra i timpani e sulle mensole dovevano essere collocate le statue. Non sappiamo chi sia l’architetto che abbia progettato il camerino delle antichità di Giovanni Grimani (forse fu il patriarca stesso a ideare il disegno, secondo alcuni studiosi), ma certo è che dovette stupire fin dai tempi più antichi chiunque lo visitasse. Troviamo un’eco della sorpresa che la Tribuna suscitava nei visitatori nelle parole dell’umanista olandese Steven Winand Pigge, che lodò “patriarcham Aquilejensem Joannem Grimanum, virum ut nobilitate, splendore, atque opibus, ita et prudentia, eruditione, rarisque virtutum dotibus ornatissimum”, e apprezzò le sue “elegantissimas aedes cum bibliotheca et musaeo rerum antiquarum omnis generis admodum instructo”: il “musaeum” allestito con antichità di ogni genere è la Tribuna del palazzo di Santa Maria Formosa.
L’Antiquarium di Giovanni Grimani sorprendeva anche per la sua originalità, dato che solitamente aule di questo tipo erano rettangolari (di modo che avessero la forma di una galleria), mentre il patriarca se ne fece costruire una di forma quadrata: una vera Kunstkammer “al centro del quale posizionarsi”, ha scritto la studiosa Silvia Cattiodoro, “teca e scrigno per esporre e proteggere, appositamente costruito per l’erudito e il suo tesoro”, e dove il patriarca poteva collocarsi, “con una certa vanità, come campione della visione antropocentrica di cui si dibatteva allora negli ambienti filosofici, in netto contrasto con la modestia, almeno di facciata, richiesta dal suo ruolo ecclesiastico”. Il camerino di Giovanni Grimani divenne vanto della sua residenza: gli ospiti in visita ufficiale vi venivano condotti di buon grado, e grazie anche alla Kunstkammer del patriarca, la fama di Venezia come città in cui si potevano ammirare le antichità romane cominciò a diffondersi rapidamente. “La sala della Tribuna”, scrivono Daniele Ferrara e Toto Bergamo Rossi nel catalogo di Domus Grimani, “era ed è tuttora l’ambiente più singolare dell’intera dimora. Le sue pareti, ideate per esporre la straordinaria collezione di antichità della famiglia Grimani, sono scandite da pilastri, elementi architettonici e nicchie entro le quali erano esposte le statue di grandi dimensioni. Il palazzo era una meta culturale frequentata da eruditi, letterati, artisti, sovrani e personaggi di rilievo in visita a Venezia. Il patrimonio privato dei Grimani dava lustro alla Repubblica e gli esponenti della famiglia erano consapevoli della funzione pubblica che svolgeva la loro collezione d’arte”. Ad accogliere i visitatori, peraltro, c’era una dedica (ancor oggi visibile) sul portale d’ingresso, che recitava: “Genio Urbis Augustae / Usuique Amicorum”, iscrizione che dichiarava dunque il palazzo aperto alla città e agli amici.
Per progettare la sua Tribuna, Giovanni Grimani si era ispirato alle collezioni romane (a Roma molti nobili avevano allestito raccolte di antichità entro spazi che richiamavano la classicità): tuttavia, ha scritto la studiosa Irene Favaretto, il nobile “riuscì a creare qualcosa di unico, romano quanto alla scansione simmetrica delle parti, ma addolcito da un gusto per il colore e per il teatro tutto veneziano. È il colore dei marmi che dà un’atmosfera particolare all’ambiente, rendendolo vivo con sapienti tocchi di marmo rosso nelle colonnine delle nicchie e sui cornicioni che delimitano la fuga della lanterna, con piccoli elementi di marmo verde che risaltano su lastre di marmo candido, mentre il resto della parete è sfumato in una calda tonalità di marmo grigio”. Colori, il grigio, il rosso e il verde, che sono peraltro quelli predominanti nella basilica di San Marco.
Nelle grandi nicchie del registro inferiore, Grimani aveva fatto sistemare statue a grandezza intera: nell’allestimento registrato da Pellegrini e Massa, e ricreato in occasione di Domus Grimani, figurano un Dioniso assemblato nel Cinquecento con frammenti di varie epoche e frammenti creati ex novo com’era d’uso al tempo, un Sileno con un torso del III secolo a.C. e altre parti integrate probabilmente da Tiziano Aspetti (Padova, 1559 – Pisa, 1606), e una Afrodite di tipo capitolina della seconda metà del II secolo d.C., anch’essa restaurata probabilmente da Tiziano Aspetti nel Cinquecento. Sopra, Grimani aveva disposto una teoria di ritratti che erano stati posti sopra le mensole e sopra le cornici per creare, scrive Favaretto, “un gioco di incroci di sguardi tra le sculture, talora volte l’una verso l’altra, quasi a colloquio, in altri casi guardando sdegnosamente davanti a sé”. La Tribuna raggiunse l’apice dello splendore tra il 1560 e il 1570, periodo in cui peraltro Giovanni Grimani dovette difendersi dalle accuse di chi sospettava che stesse appoggiando la riforma luterana, ed è probabilmente in questo periodo che l’ambiente dovette raggiungere il suo assetto definitivo, culminante in alto con lo spettacolare volo del Ganimede del II secolo d.C., restaurato nel Cinquecento, che era sospeso a mezz’aria, investito dalla luce proveniente dal lucernario. Tuttavia, ha osservato la studiosa Marcella De Paoli, occorre anche sottolineare come l’allestimento doveva essere “un progetto in continua evoluzione, rimodulabile allo scopo di inserire nuovi acquisti”. All’epoca in cui Pellegrini e Massa compilarono l’inventario, nella Tribuna figuravano più di centotrenta opere, in bronzo e in marmo (con Domus Grimani invece ne sono state sistemate ottantasette). “L’insieme”, ha evidenziato De Paoli, “era ispirato a un principio generale di armonia, di sensibilità rinascimentale, che nella collocazione delle statue entro nicchie e nella luce zenitale ha suggerito ad alcuni studiosi confronti con il Pantheon e con il Michelangelo delle Cappelle Medicee. Una Kunstkammer dunque, che a Venezia precorreva i tempi ed esaltava la sacralità della scultura antica”.
Segue la Tribuna in ordine di spettacolarità la summenzionata Sala del Doge, così chiamata in quanto ideata da Giovanni Grimani con lo scopo preciso di celebrare Antonio Grimani, che era stato il primo doge della famiglia. Il luogo dedicato alla memoria del nonno aveva il compito di ricordare la figura che aveva dato avvio alle fortune della famiglia: una storia di successo, di caduta e di riscatto (ad Antonio Grimani era stato affidato nel 1499 il comando della flotta veneziana contro i turchi, che inflissero due pesanti sconfitte alla Serenissima, col risultato che il futuro doge venne riportato a Venezia in catene e poi confinato sull’isola di Cherso: avrebbe però ricevuto la grazia nel 1509 e tornò poi rapidamente in auge, tanto da arrivare a essere eletto doge nel 1521, all’età di ottantadue anni). Il nipote aveva immaginato una grande stanza che riceve luce da tre finestroni affacciati sul canale San Severo e intervallati da nicchie dove andavano a posizionarsi le sculture. Il tutto decorato con raffinate ghirlande di fiori e grottesche. Al centro della sala, sul lato attiguo rispetto a quello in cui si trovano le finestre, si apre un camino sul quale spiccava il busto di Antonio Grimani (andato perduto: al suo posto per Domus Grimani è stato installato un busto di Cesare eseguito dallo scultore toscano Simone Bianco nella prima metà del XVI secolo), e dove si legge ancor oggi la dedica (“Ant Grimano venet / Principi Optimo / Grim Familiae / Ampliatori”). Nelle nicchiette del registro superiore, che si trovano sopra le porte, erano collocate ulteriori sculture antiche.
Dopo la scomparsa di Giovanni Grimani, il destino delle opere della Sala del Doge non fu simile a quello delle sculture della Tribuna, che nella stragrande maggioranza hanno condiviso la stessa sorte, finendo, come si dirà tra poco, nello Statuario Pubblico della Repubblica di Venezia. La Sala del Doge subì infatti diverse trasformazioni. Il lato opposto rispetto a quello del camino era stato rivestito con un leggero bugnato e al centro presentava una grande nicchia con “doi statue una grande più del vivo d’un fauno che abbraccia un satiro di grandezza dal vivo”, registravano Pellegrini e Massa: si tratta del gruppo con Dioniso e Satiro della seconda metà del II secolo d.C., integrato e restaurato nel XVI secolo, e reinserito con l’allestimento di Domus Grimani. Questo lato della Sala ospitava il numero di sculture più alto di tutto l’ambiente, molte delle quali tuttavia rimasero tra i beni dei Grimani, e di esse oggi non è nota l’ubicazione (tra queste figura il già citato busto di Antonio Grimani), dal momento che nel 1865 gli eredi misero in vendita diversi oggetti che si trovavano nel Palazzo, rendendo la Stanza del Doge vuota. Nonostante l’impossibilità di ricostruirla esattamente com’era, la Stanza del Doge è comunque un ambiente carico di fascino: “se la ricostruzione della Tribuna è stata una felice intuizione che ha permesso di riscoprire uno dei luoghi più ammirati nel Cinquecento per la bellezza delle sculture e per il valore storico e artistico delle sue componenti”, conclude Irene Favaretto, “la ricostruzione della Stanza del Doge ci restituirà una vicenda umana che ha visto il riscatto di un uomo da un doloroso evento personale, proiettato sullo sfondo di uno dei periodi più difficili della storia della Serenissima”.
La formidabile raccolta di Giovanni Grimani fu donata nel 1587 alla Repubblica di Venezia: i marmi rimasero pochissimo tempo a Palazzo Grimani, poiché subito dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1593, le sculture furono trasferite nella Biblioteca Marciana, in un ambiente (l’antisala della Biblioteca) destinato poi a diventare lo Statuario della Repubblica, che fu aperto al pubblico nel 1596 e che in seguito si sarebbe ulteriormente arricchito con donazioni di opere da parte di altre famiglie. Dopo la caduta della Serenissima nel 1797, lo Statuario non venne risparmiato dalle spoliazioni napoleoniche: le sculture lasciarono la Marciana per Palazzo Ducale, e alcune presero la via della Francia (tra queste il rilievo con suovetaurilia un tempo in collezione Grimani: un importante bassorilievo della prima età imperiale con raffigurata una scena di sacrificio, il cui nome indica le bestie in procinto d’essere immolate, ovvero un maiale, una pecora e un bue). A seguito della Restaurazione, l’Austria, che aveva ottenuto la sovranità sui territori un tempo appartenenti alla Repubblica di Venezia, inviò a Parigi il direttore della Galleria del Belvedere di Vienna, Joseph Rosa, cui spettò il compito di recuperare i beni trafugati dai francesi nelle aree che dopo il 1815 erano state riunite in una nuova entità statale, il Regno Lombardo-Veneto. Gran parte delle opere della Marciana tornò a Venezia, anche se alcune rimasero in Francia (tra queste il suovetaurilia, che era stato murato in una parete del Louvre).
La più parte delle opere tornò dunque al proprio posto. Dopo l’Unità d’Italia, nel 1882, lo Stato divise il patrimonio del museo da quello della biblioteca, atto che avrebbe portato alla nascita, tra il 1923 e il 1926, del Museo Archeologico di Venezia, con sede alle Procuratie Nuove (dove tuttora si trova). È qui che è conservata la collezione di Giovanni Grimani. Collezione che, come ricordato, nel maggio del 2019 è stata temporaneamente trasferita nella Tribuna di Palazzo Grimani, andando così a riallestire l’ambiente come lo si poteva vedere fino al 1594, anno in cui i marmi uscirono dall’edificio per essere esposti alla Marciana. Palazzo Grimani è infatti un’acquisizione relativamente recente per il pubblico: l’edificio venne infatti acquistato dal Ministero della Cultura nel 1981, e dopo anni di restauri è diventato un museo pubblico statale nel 2008 (dal 2015 è uno dei musei della Direzione regionale Musei Veneto, l’ex Polo Museale del Veneto). Per Venezia, hanno spiegato Ferrara e Bergamo Rossi, il palazzo rappresenta “una preziosa rarità, per via della sua conformazione architettonica, che richiama la domus romana e i modelli rinascimentali della città papale, nonché per le decorazioni di impronta manierista tosco-romana: gli affreschi e gli stucchi di Giovanni da Udine, allievo di Raffaello, con il quale collaborò alla decorazione delle Logge Vaticane e della Farnesina a Roma, e di altri artisti che si affermarono grazie a esperienze romane, il fiorentino Francesco Salviati e il marchigiano Federico Zuccari”.
Così, il riallestimento degli ambienti cinquecenteschi ha rappresentato un “eccezionale evento”, come lo hanno definito Ferrara e Bergamo Rossi, che “ha permesso di poter ammirare per la prima volta dopo quattro secoli le sculture greche e romane nella collocazione voluta dal patriarca Grimani, e di valorizzare una sede museale statale ancora troppo poco nota. Le collezioni di arte antica dei Grimani rappresentano oggi, come nel XVI secolo, un unicum a livello internazionale”. Palazzo Grimani è dunque un museo particolarmente vivo, il cui patrimonio continua ad arricchirsi, come dimostra l’acquisizione, nel 2020, del ritratto di Giovanni Grimani attribuito a Domenico Tintoretto, che ha colmato un importante vuoto iconografico dal momento che nel museo mancava il ritratto del “paron de casa”. Ed è già diventato uno dei luoghi di Venezia che più affascinano cittadini e viaggiatori.
Da un vecchio libro, ancora in catalogo dopo svariate edizioni, propongo ai lettori alcune curiosità veneziane. Fra calli e rii, chiese e conventi, fondamenta e campielli, teatri e palazzi nobiliari, una rapida carrellata di costume, un salto a ritroso che riporta alla luce nomi, fatti, costumi, abitudini che hanno reso grande per secoli la Serenissima.
“Nasso da pare turco e da madre todesca, no posso essere che strambo” (nasco da padre turco e da madre tedesca, non posso che essere strambo). Così amava presentarsi un giovane scioperato che, trascurati gli studi di legge all’università Patavina, si godeva la rendita che il facoltoso padre gli assicurava. Si chiamava Giuseppe Tassini, era nato nel 1827, e alla morte del padre nel 1858 decise di mettere la testa a posto. Si laureava così a 33 anni e prendeva ad amministrare l’ingente patrimonio ereditato. Essendo nel frattempo maturata in lui la passione per la storia di Venezia, nel 1863 presso la premiata tipografia di Gio. Cecchini, in due volumi a ottavo piccolo, pubblicava Curiosità veneziane, uno stradario della città lagunare, arricchito da memorie archivistiche. Del libro sono state stampate parecchie edizioni; quella che mi sono trovato fra le mani è del 1990, per i tipi di Filippi editore in Venezia, dottamente prefata da Elio Zorzi, arricchita dalle note di Lino Moretti e da un prezioso dizionario dei vocaboli dialettali e delle abbreviature. Seguendo l’esortazione del fondatore, gli eredi della casa editrice Filippi ne continuano la tradizione in Calle del Paradiso, con immutato amore per Venezia. Per rendersene conto, basta scorrere il lungo catalogo che spazia dall’illustrazione iconografica della città, alla storia della Serenissima, alla cucina, al teatro, alla musica, alle tradizioni popolari dell’intero Veneto, per dire delle principali collane.
In Curiosità veneziane non si tratta solo della conformazione topografica della città, già esposta nel ‘700 da Flaminio Correr, dall’abate Galliccioli, oppure, nel primo ‘800, da Antonio Cicogna, Giovan Battista Paganuzzi e poi da altri. Come giustamente nota Zorzi mai prima di Tassini Venezia era stata studiata e illustrata così a fondo. Tassini, rovistando inesausto-vero e proprio topo di biblioteca- ha avuto il merito di portare alla luce le copiose memorie manoscritte, custodite nelle chiese, in istituti di beneficenza, negli archivi delle corporazioni delle arti e dei mestieri, in ospizi, al catasto, al notariato, negli elenchi nobiliari e delle diverse magistrature, e non ultimo nell’immenso archivio della biblioteca Marciana.
Nota opportunamente Zorzi, sottolineando l’importanza dell’opera di Tassini: “L’indagine sull’origine dei nomi delle strade gli aveva offerto infatti l’opportunità di rifare, sia pure brevemente, la storia delle chiese, dei palazzi, delle famiglie, delle antiche istituzioni sociali e politiche dei veneziani, ma soprattutto… di pubblicare una messe vastissima di fatti di cronaca e di storia rimasti precedentemente inediti e ignorati, dal complesso dei quali veniva illuminata… la vita commista di eroismi e di turpitudini, di splendori e di miserie… cronaca pittoresca e complessa, nella quale s’alternano i fattacci di sangue e gli episodi di sublime pietà, le avventure salaci e i racconti di gesta gloriose” Tralasciando queste ultime, spesso enfatiche per i nostri gusti, voglio di seguito riportare fedelmente alcuni episodi che bene illustrano usi e costumi della Venezia fra ‘700 e ‘800. La spigolatura non segue rigorosamente l’ordine alfabetico del libro, ma è rispettato il rimando ai luoghi descritti. Il titolo e l’introduzione a commento sono miei.
BENZON, ovvero la vita mondana a Venezia
Venezia è sempre stata crocevia del bel mondo, artisti e musicisti, intellettuali. Sentite cosa ricorda Tassini a proposito di Giorgio Benzone, principe di Crema, che, persi i propri domini, nel 1426 divenne condottiero per la Repubblica, aggregandosi al Veneto patriziato. “A parlare dei tempi moderni [questa famiglia] produsse quel Vittore, gentile poeta, il quale premorì alla madre Marina, celebre per galanteria, e per aver dato soggetto alla graziosa canzone: La biondina in gondoleta. Marina Benzon nel suo palazzo a S. Benedetto.. era solita tenere fiorite adunanze, ove intervenivano i più distinti forestieri dell’epoca, quali Byron, Moore, Canova, Pindemonte, Arici,ecc.”
Celestia, ovvero lasciviam et sacrilegia.
“Dalle raspe (registro delle sentenze ndr) siamo accertati che nei secoli XIV e XV parecchie [monache] non solo accoglievano gli amanti nel proprio chiostro, ma si ritrovavano con loro nella villa di S.Elena in quel di Trevigi, oppure in qualche luogo del Padovano, ove explebant lasciviam et sacrilegia. Forse avveniva perché le monache a quei tempi, come insegnano i Diari del Priuli, sotto qualche pretesto, ottenevano dalla Santa Sede di riunirsi per uno o due mesi in famiglia, e si davano al bel tempo in modo che il Senato supplicò la Corte Romana di non concedere tali pericolose licenze….Esse nel principio del XVI secolo furono poste eziandio sotto il governo dei veneti patriarchi. Ma non si tosto cessarono gli scandali, poiché narrano i Diari del Sanudo che nell’anno 1509 la monache della Celestia ballarono tutta la notte con alcuni giovani patrizi al suono di pifferi e trombe….”
Calle e ponte della Donna onesta
Versione prima
“Secondo alcuni era qui domiciliata una leggiadra popolana, moglie d’un maestro spadaio. S’invaghì della medesima un giovane patrizio e, per aver modo d’introdursi in sua casa, commise allo spadaio una di quella piccole daghe, dette a quei tempi misericordie. Venuto dopo alquanti dì, sotto il pretesto di vedere se l’opera era compiuta, e trovata sola la donna, usolle violenza. Non volendo essa sopravvivere alla perdita del proprio onore, afferrò la stessa daga che il marito aveva approntato pel patrizio, e disperatamente si uccise”
Versione seconda (nota sotto la voce Amor degli Amici)
“Secondo quanto ha scritto G. Malgarotto nel Gazzettino dell’11 gennaio 1925,…. “la bella Santina, moglie dello spadaio Battista, non avrebbe fatto la fine di Lucrezia, ma il suo onore sarebbe stato salvato da un fedele amico del marito, Zuane bareter, che era stato insospettito dall’assiduità con la quale Marchetto Rizzo si recava a casa di Battista, proprio quando costui era assente, a prender notizie di un certo fuseto damascato che gli aveva ordinato. Sorpreso il Rizzo che stava per sopraffare la donna, Zuane lo colpì con quel fuseto e fu perciò bandito per mesi sei il 14 ottobre 1490..”
Giacomo, l’avventuriero per eccellenza
Non potevano mancare nell’opera i riferimenti al “famigerato” Giacomo Casanova, fuggito dai Piombi, in cui era stato rinchiuso il 25 luglio 1755.
Il luogo di nascita dell’avventuriero è San Samuele, noto ai tempi che furono come postribolo. E. Zorzi ricorda questo detto popolare sulla contrada: San Samuel/contrada picola/grand bordel/senza ponti/cative campane/omeni bechi/e done puttane.
Nella Storia della mia vita, Casanova ricorda la “spaventosa prigione”, in cui venne richiuso, al buio, in mezzo a pulci e topi, senza che nessuno lo interrogasse e gli facesse precise accuse. Uscirà evadendo solo alla fine nell’ottobre del 1756.
Tassini ricorda una sua prodezza seduttiva: “Una sera di carnevale del 1745 un gentiluomo di casa Barbi e Giacomo Casanova, adocchiarono una bella popolana che stava bevendo col marito e due amici…. Idearono tosto di averla ai loro voleri e, sotto colore di essere pubblici funzionari, imposero al marito e agli amici di seguirli, in nome del Consiglio dei X, fino all’isola di San Giorgio. Piantati colà quei poveri gonzi, ritornarono a Venezia, e ritrovarono a Rialto la donna che avevano lasciato a guardia d’alcuni loro compagni. Allora la condussero all’osteria delle Spade ove cenarono, e si diedero buon tempo per tutta la notte, dopo che la rimandarono a casa”
I felzi, ovvero i coperti delle gondole
“Delle gondole abbiamo ricordo fin dal 1094 in un diploma di Vitale Falier agli abitatori di Loreo (comune bassopolesano). Il nome gondola provenne da cymbula o da conca, o conchula, o della greche voci contos elas (breve barca). Da principio queste barchette erano semplici e modeste, ma nel secolo XVI, in cui giunsero a Venezia in numero di 10 mila, s’incominciarono ad adornare da poppa e da prora di due ferri ricurvi, guarniti di piccole punte, e si addobbarono di stoffe e broccati ricchi oltremisura. Allora il Magistrato alle Pompe, stimandosi tale lusso eccessivo, comandò che esse dovessero coprirsi di quel panno di lana ordinaria, chiamato rascia, e volle che il colore di detto panno fosse uniformemente nero. Alla fine del XVIII secolo, tolto il ferro da poppa, riformato quello da prora, e fattevi dell’aggiunte non più di lusso, ma di comodo, vennero portate le gondole a quella condizione in cui trovansi tuttora”.
Frezzaria
Nella Serenissima non c’era la leva obbligatoria, di vota in volta scendevano in battaglia i mercenari, marinai professionisti, condottieri di professione. Nonostante ciò, nobili e popolino, fin dal XIV secolo erano obbligati ad esercitarsi nel tiro.
“ ..i capi contrada dovevano iscrivere tutti gli uomini del loro circondario dai 16 ai 35 anni, dividerli in schiere, e mandarli, una volta alla settimana, i plebei di festa, ed i nobili in altra giornata, a frecciare al bersaglio. Tali adunate si facevano al suono di apposita campana, essendo stabilito che il principale luogo dell’esercizio fosse la spiaggia del Lido…Pel trasporto stavano pronte verso mezzodì alla Piazzetta certe barche, ganzaroli appellate…. In seguito… incominciossi a trarre con schiopeti et archibugi, finchè, mutata affatto la maniera di guerreggiare, rimasero soltanto in vigore gli esercizi a fuoco, che specialmente dai bombardieri si facevano così al Lido, come in appositi punti della città”.
Venezia violenta
Il Consiglio dei X spesso doveva occuparsi di aggressioni e assassinamenti “che frequentemente succedevano allora in Venezia” ci dice il Tassini, per il quale le raspe erano una fonte inesauribile di notizie.
“..avendo un Antonio Filacanevo, d’accordo con Orsa Cantarella, condotto una figlia di costei, d’anni 8 circa, alla casa di un certo Fiore da Bologna in Pontem Fusoriorum (attuale Fuseri n.d.r), colà le tolse il fiore verginale, non tamen explete (certamente espletato), e perciò con sentenza del 4 novembre 1440, venne condannato ad essere frustato da S. Marco a Rialto, a stare sei mesi in prigione, ed a pagare 100 lire di multa a favore della danneggiata”.
“Nel sagrà di Santa Marta venne colta il 15 giugno 1510 quella Adriana Misani, moglie d’Andrea Massario banditore, che era stata complice dell’uccisione del proprio marito, operata da Francesco figlio di Magro barbitonsore di S. Ternita, col quale manteneva amorosa corrispondenza. Essa venne condannata al supplizio della chela, per sentenza 11 luglio dell’anno medesimo, ma nell’undici ottobre successivo fuggì, né altro si seppe dei fatti suoi”.
“Era della chiesa di S.Fosca quel prete Agostino, che, solendo bestemmiare giocando, fu il 7 agosto 1542, secondo la cronaca del Balbo, posto in berlina fra due colonne di San Marco da terza a nona, chiuso il giorno seguente nella chela fino al termine di settembre, poscia condannato a compier l’anno nella PrigionForte e finalmente bandito in perpetuo.” (chela o gabbia, quadrata, sporgente da una finestrella a metà del campanile di San Marco, ndr)
“Leggasi che nel 1391 il pievano di S. Maurizio Giacomo Tanto, essendosi posto d’accordo con Tommaso Corner d’uccidere un prete.. lo condusse in quartas vini malvatici pro dicendis totidem missis, e colà, ajutato dal compagno, lo trucidò…. Tommaso Correr, assente, venne condannato a perpetuo bando, ed il pievano ad finiendam vitam suam incavea suspensa ad campanile S. Marci in pane e acqua. Avvenne che la matrigna di quest’ultimo, d’accordo coll’uffiziale di custodia, mandasse al condannato fugacias fabricatas, et pensatas cum nucibus, mandulis et zacari pulvere, ac fritellas, et alias confetiones, quibus produxit vitam in longum contra sententiam. L’uffiziale perciò perdette l’impiego, e buscossi un anno di ritenzione nei Pozzi.”
“Mantenendo Vincenzo Redosin, margariter (malgaro ndr), libidinosa tresca con Elisabetta Poli, d’anni 29, vedova, domiciliata i Calle del Zudìo, ed avendola colta la notte del 21 aprile 1761 fra gli amplessi d’un giovanotto, da lui molto ben conosciuto, la uccise, quantunque fosse gravida, a colpi di coltello, per cui chiamato a discolparsi e non comparso, ebbe sentenza di bando il 22 maggio dell’anno medesimo.”
Di come si amministrava la giustizia
Dai fatti delittuosi alla sentenza non passa mai molto tempo, essendo quella veneziana una giustizia rapida, seguita da esecuzione a volte stoltamente crudele al punto da sollevare indignazione e, come in questo brano, tumulto di popolo. Una giustizia che non guarda se si è patrizi o bottegai, o minori di età (distinzione quest’ultima presente oggi nel nostro codice penale, ma non prima dell’Illuminismo).
“Al ponte dei Miracoli avea bottega nel 1713 un caregheta (facitore di sedie, o careghe) che tenea per garzone Antonio Codoni, d’anni 16, nato a Caloneghe di Belluno. Quest’ultimo essendo stato una mattina svegliato dalla serva del proprio padrone forse prima del solito, le disse un mare di ingiurie, in pena delle quali, dopo una buona bastonatura, venne licenziato dal servigio. Desideroso perciò di vendicarsi con la serva, e contro il padrone, aspettò che la poveretta rimanesse sola in casa, se le scagliò addosso, e l’uccise, appropriandosi di oggetti di argenteria. Sopraggiunti al rumore i vicini e i birri, fu preso il feroce ragazzo, a condannato al capestro. Qui occorse uno strano incidente. Apprestavansi il 3 luglio 1713 in piazzetta S.Marco, fra le due colonne, gli strumenti dell’estremo supplizio, quando i barcajoli del prossimo traghetto fecero osservare al carnefice che il laccio era troppo lungo, al che questi rispondeva: <Allorchè dovrò farlo per voi, farollo a modo vostro>. Giungeva frattanto il reo, ed il carnefice ponevasi all’opera, ma il laccio veramente eccedeva in lunghezza, laonde il paziente, prima di morire, ebbe prolungati per lunga pezza i proprii tormenti. A tal vista i barcajoli incominciarono a tumultuare, e percossero il carnefice, nascendo un tafferuglio che, come attesa il Cod. 1596 Classe VII della Marciana, molta gente andò in acqua, fu persa molta roba, e stroppiate molte persone nel cader a terra una sopra l’altra, e molti ne morì affogati, che fu veramente una gran strage di popolo”.
“Essendo i patrizi Giovanni Bragadin, Daniel Venier e Francesco Bon andati di conserva il sabato santo del 1590 alla casa d’Adriana Formento, meretrice a S. Zuan Degolà al traghetto per mazo s. Marcuola, ed avendola trovata a desinare, la condussero in una camera, ed ivi, spogliatala per forza, la vollero, l’uno dopo l’altro, etiam con modi stravaganti, usare contro natura, ad onta della continua renitentia di detta donna così di pianto come di resistentia. Citati perciò, e non comparsi, furono banditi dal Consiglio dei X con sentenza del 1590.”
L’industria delle tinte e credulità popolare
“I tintori si divideva in tre classi: di sete, fustagni, e tele, facendo grandissimo traffico coll’Olanda, Fiume, Levante, Turchia. Lo scarlatto ed il chermesino di Venezia godevano una rinomanza universale. I secreti delle tinture erano cos’ meravigliosamente mantenuti da originare una singolarissima usanza. Le leggi ordinavano le stagioni nella quali si dovevano comporre le misture per lo scarlatto. Siccome si doveva distrarre il pubblico dal por mente alla fabbricazione di tale tintura, solevasi spacciare qualche favola che mettesse paura al popolo. Ora aggiravasi in que’ contorni un fantasima bianco, ora un omaccione con un cappellone, ora un gigante con il lanternino in mano. Ecco come si introduce la parola scarlatto, per indicare un timore senza fondamento. In questa guisa la credulità umana veniva messa a contributo dall’industria”
I pizzicagnoli veneziani
I fast food dell’epoca, nei dedali della trafficata e popolosa città lagunare, trovarono l’ambiente ideale per propagarsi.
Si legge nella enciclopedia Treccani: “La febbrile attività di mercanti, mediatori, piccoli negozianti, gente comune affaccendati a Rialto o in piazza S. Marco colpiva fortemente l’immaginazione degli stranieri che giungevano in città. Un centro popolato presupponeva scambi di merci e di ricchezza, nonché una vasta area di consumi, tra i più svariati, da quelli primari – gli alimenti e i tessuti meno pregiati – a quelli considerati di lusso – sete e preziosi, opere d’arte e spezie orientali; tra questi estremi vi era un’ampia gamma di domanda di beni e servizi, stimolata dalla presenza di uomini e capitali in un medesimo, circoscritto, luogo. A Venezia – osserva verso il 1685 il francese G. Burnet – “c’è una ricchezza incredibile e una grande abbondanza di ogni cosa”.
In quanto alla qualità, fatevi voi un’idea, leggendo quanto riporta Tassini: “ Chiamavasi, e chiamansi tuttora furatole alcune bottegucce simili a quelle dei pizzicagnoli, ove vendesi pesce fritto ed altri camangiari, ad uso della poveraglia. Deriva del vocabolo furatola o da foro, essendo tali bottegucce altrettanti piccoli fori, o stanzini, a pian terreno; o dal barbarico furabola, che secondo il Ducange, equivale a tenebrae, essendo le medesime oscure e annerite dal fumo; o finalmente a furari (rubare) per le frodi e le ruberie, che vi si commettevano, punite in antico con multa, e perdita di esercizio…. I Furatoleri non potevano vendere alcun genere riservato al Luganegheri (da luganega, cioè salciccia, e più in generale carne insaccata, ndr), né condire i cibi con cacio, onto sotil, ed altro grasso. Chiunque dei medesimi avesse osato di vendere vino, anche al minuto,…non solo perdeva il vino, e pagava 40 ducati di multa, ma bandivasi eziando da Venezia, e dal Dogado per un anno. Se gli impiegati tenevano furatola, perdevano il posto; i preti poi, se la tenevano in casa, divenivano incapaci d’ogni beneficio ecclesiastico; e se fuori casa, incorrevano in pena pecuniaria, non pagando la quale, potevano essere incarcerati”.
«Vivo in una casa con tutta la gloria della Serenissima» Bergamo Rossi e il Palazzo Gradenigo: arredi, affreschi e gli stemmi lignei a poppa delle navi
Abitare Venezia non è come abitare altrove nel mondo. Le sue pietre, cariche di mille anni di storia e di gloria, sono vanitose, orgogliose, egocentriche. E se ci vivi dentro ti impongono, inevitabile, di fare un passo indietro. Perché le protagoniste sono loro. Toto Bergamo Rossi lo sa e si è adattato.
Restauratore, cultore di bellezza, direttore dal 2010 di Venetian Heritage, organizzazione internazionale non profit per la tutela del patrimonio artistico della Serenissima e di quei territori che un tempo ne facevano parte, occupa un’ala del primo piano nobile di Palazzo Gradenigo. Imponente dimora del XVII secolo, di Baldassarre Longhena, autore di quell’immensa gioia del barocco lagunare che è la Basilica della Salute sul Canal Grande.
«Quando sono arrivato qui, nel 1999, ho restituito a questa casa memoria e dignità, liberandola nel giro di due anni di tutti quegli interventi che ne avevano mortificato lo spirito. Sotto intonaci scrostati e soffitti abbassati sono emersi gli stucchi originari (nell’ingresso ricordano i rilievi dei cuoi di Cordova, di gran moda nella Venezia del XVII secolo) e chilometri di affreschi. Dopo, non c’è stato più posto per altro».
Nei trecento metri quadrati affacciati sul breve Rio Marin, scavato a mano nel corso dell’XI secolo, Toto ha lasciato la scena al prodigio degli arredi fissi: le porte in noce del XVIII secolo, le pareti a marmorino, i pavimenti in terrazzo alla veneziana, la grande specchiera incassata sopra il camino neoclassico, i rilievi ornamentali con colori a fresco tipici del gusto d’inizio Settecento, i soffitti dalle decorazioni pittoriche di scuola di Giambattista Tiepolo. In questa fuga di stanze dove vive «senza televisione», ha messo in valore quanto ha trovato — compresi i grandi stemmi lignei con le insegne delle famiglie aristocratiche, un tempo posizionati a poppa delle galere, aggiungendo, in fondo, ben poco. Una manciata di arredi stile Luigi XVI, qualche gesso canoviano, incisioni di Giovanni Battista Piranesi, antiche lanterne e poi migliaia di libri, sua magnifica ossessione. Ha poi calato tutto in una luminosità soffusa («la luce ha valore simbolicoemozionale, non solo funzionale»), per riconsegnare agli ambienti il magico chiarore del passato, creato da migliaia di candele.
È qui che Toto Bergamo Rossi ama ricevere gli ospiti di Venetian Heritage, soprattutto gli stranieri, per immergerli nell’atmosfera di una residenza storica e mostrare che «Venezia non è un albergo diffuso, un parco giochi male organizzato e gestito ancora peggio».
Ho ridato a questa dimora barocca memoria e dignità, liberandola dagli interventi che ne avevano mortificato lo spirito
Nel libro d’oro della maison, tra le tante, le firme di Claudio Abbado, Mick Jagger, Bono, Barbra Streisand, Tilda Swinton, Jeff Bezos, Anish Kapoor, James Ivory. Proprio qui, il regista statunitense, 92 anni, autore di Camera con vista e Quel che resta del giorno, ha confessato all’amico l’ultimo sogno: un film dal celebre racconto di Henry James Il carteggio Aspern.
«È rimasto senza parole quando gli ho detto che fu scritto qui accanto, a Palazzo Soranzo Cappello, poco tempo prima che Gabriele d’Annunzio ambientasse parti del suo romanzo Il fuoco proprio nel giardino Gradenigo, fino al 1922 il più vasto della città, dove per il Carnevale del 1768 vennero addirittura organizzate delle cacce ai tori».
Quello che resta oggi è meno di un quarto della sua estensione originaria. Toto Bergamo Rossi ha restaurato, con appassionata diligenza, anche questo scampolo di verde; vi ha messo a dimora pergole di glicine bianco, viti e rose rampicanti, una Sophora japonica degli anni Venti e quelle piante aromatiche, tipiche del giardino lagunare, che crescevano anche negli orti dei dogi.
L’ARTE INTERCETTA
LE CONTRADDIZIONI
DEL CAPITALISMO
L’arte da vivere che si rovescia contro l’arte in vendita, ma comunque inarrivabile per i più, e quindi solo contemplabile nel puro feticismo della merce. Anne Imhof e Damien Hirst: due estremi che sembrano intercettare le contraddizioni del capitalismo globale. Due mondi lontanissimi che sembrano inconciliabili ma che – in fondo – risultano complementari: le facce opposte della stessa moneta come Quantitative easing e austerità, una complementare all’altra.
L’arte decostruisce la realtà, la seziona senza pretese didascaliche e poi la proietta nel futuro. L’arte non deve spiegare, bensì trasmettere lo spirito del tempo che la pervade. Ma l’arte che rimane nel tempo è sempre spiegabile da un termine posteriore, anche se rimane criptica, inintelligibile, nel presente.
Venezia, 2017. Biennale dell’arte. German Pavilion ai Giardini. Installazione corale curata dall’artista Anne Imhof. Una performance povera, fatta di plexiglas, popolata da animali e da corpi umani.
Venezia, 2017. Biennale dell’arte. Punta della Dogana, palazzo Grassi. La mostra di Damien Hirst, la più sfavillante di sempre, costata 120 milioni di dollari, riscrive i canoni dell’arte grandiosa ed esagerata.
Questi due estremi sembrano intercettare le contraddizioni del capitalismo globale.
Hirst incarna l’esplosione di liquidità monetaria che si è riversata, in modo molto selettivo, sul pianeta Terra, emblema dell’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica.
La performance di Imhof, al contrario, non è mai riproducibile: corpi umani che amano, lottano, urlano, cantano, ballano, e che si ribellano all’interno di una cornice fissa, di uno spazio chiuso, protetti o controllati – e la differenza è tanto sottile quanto cruciale – da due dobermann feroci.
Imhof descrive il disagio, la lotta del corpo al tempo della biopolitica, trasformato in oggetto su cui sperimentare nuove tecniche estrattive, in cavia ultramoderna, ma anche colto nel suo sottrarsi al regime di sorveglianza, al regime del capitale che controlla subdolamente, in modo invisibile.
Imhof ci mette davanti alle nostre catene interiori, il suo Faust provoca uno straniamento quasi immediato. Non è arte contemplativa, questa: è arte sensoriale. Non si rimane incantati: si rimane senza fiato, come colpiti da un pugno al fegato. Imhof non racconta sogni né incubi: aggredisce, al contrario, il reale con il quale – e nel quale – proviamo a convivere. Quella realtà che cerchiamo di abbellire e mascherare ogni giorno, ma che l’artista tedesca ci sbatte in faccia senza trucchi né belletti: vivida, così com’è.
Damien Hirst, “Demon with Bowl”
Ora, lasciati i Giardini, prendo un vaporetto e raggiungo Punta della dogana.
L’atmosfera cambia. Il sobrio lusso dello spazio di Pinault è asettico. Il contrasto è netto: dall’accoglienza del padiglione tedesco, con le giovani donne che sembrano uscite dal quartiere St. Pauli di Amburgo, al formalismo dei dipendenti. Da un posto all’altro, sull’acqua della Laguna.
Damien Hirst utilizza capitali infiniti per costruire un’opera senza precedenti, fuori da ogni canone. Immagina il ritrovamento di un vascello naufragato nel 1800 nei mari del Sud. Crea una serie di reperti sottratti agli abissi, li riproduce in serie da tre, li ributta nelle acque e ne “documenta” il falso ritrovamento. Li espone in una menzognera forma originale: ricoperti di coralli come se fossero rimasti sommersi per duecento anni.
Damien Hirst, “Hydra and Kali Discovered by Four Divers”
Tutti i pezzi esposti sono stati già venduti per cifre esorbitanti a diversi tycoon che li esporranno nelle sedi delle loro corporations o in alberghi di lusso in giro per il mondo, oppure saranno acquistati da fondi d’investimento baciati da una liquidità colossale.
Damien Hirst sfrutta le cataratte di cartamoneta che scorrono impetuose a livello globale, intercetta i famelici flussi di capitale in perenne ricerca di sbocchi, di opportunità alternative d’investimento; orchestra un’operazione straordinaria, in cui si prende gioco del mondo dell’arte, oltrepassando i confini del “postmoderno”.
Nel vascello sommerso, il tempo collassa in una singolarità, il fluire lineare va in cortocircuito in mezzo a reperti d’ogni epoca: si passa da sculture egizie con tagli di capelli post-punk e piercing alle icone Disney come Pippo, Mickey Mouse e Mowgli. Nel vascello c’è spazio per tutto ciò che l’artista ha visto e che ricorda, nelle forme di opere rigorosamente riprodotte in serie da tre e probabilmente vendute prima ancora di essere concepite
Damien Hirst è l’imprenditore di se stesso, entrepreneur of the self, l’uomo-brand con un fatturato superiore a una fabbrica di medie dimensioni. Damien Hirst è il culmine del sogno del terzo millennio, l’individuo idealizzato dal tardo-capitalismo.
Poi chiudo gli occhi e torno a pensare all’iper-realismo del Faust di Anne Imhof, l’arte invendibile, irriproducibile, il corpo dei singoli e i corpi dei molti in lotta con i demoni e gli aguzzini: oltre i confini dell’epidermide, dentro la mente e fin nell’inconscio, dove la biopolitica volge in psicopolitica.
L’arte da vivere che si rovescia contro l’arte in vendita, ma comunque inarrivabile per i più, e quindi solo contemplabile nel puro feticismo della merce. Due mondi lontanissimi, all’inizio e alla fine di questo percorso, che sembrano inconciliabili ma che – in fondo – risultano complementari: le facce opposte della stessa moneta come Quantitative easing e austerità, una complementare all’altra.
L’ordine della sorveglianza e la risparmiocrazia, la ricchezza fine a se stessa e il rigore imposto oltre ogni misura, il lavoro vivo dequalificato fino a metterne in discussione la sopravvivenza stessa contro il lusso sfrenato della finanziarizzazione.
Le opere di Hirst finiranno in ogni angolo del pianeta a simboleggiare la globalizzazione dei capitali, quelle di Imhof vivono già nel mondo, non sono riproducibili perché già riprodotte miliardi di volte dalle vite di donne e uomini.
Lascio Venezia, questa città oltre ogni definizione, con un senso di stordimento addosso e la convinzione che l’arte – nelle sue molteplici, svariate forme – è il filo conduttore dell’umanità.
Articolo tratto dal sito www.idiavoli.com un progeto di Guido Maria Brera
Con questo bel articolo Stelio Solinas ritorna su Jean Clair, in occasione della uscita in Francia di un suo libro di memorie e di critica, La parte de l’Ange. Storico dell’arte e saggista, oramai 76enne, ma sempre indomito e polemico, Claire è stato tante cose nella sua lunga attività: conservatore generale del patrimonio francese, fondatore e direttore dei Cahiers du Museé d’Art, direttore di una Biennale a Venezia, Accademico di Francia. E’ a lui che si deve il rilancio Oltralpe dell’arte italiana del ‘900, per troppo tempo emarginata fra i ferri vecchi del Fascismo. Le malinconie della vecchiaia e le disillusioni del presente, gettano nelle sue analisi un pessimismo di troppo, ma il suo sdegno sulla bruttezza ci sta tutto, purtroppo; così come il rammarico per la scomparsa del sacro, tema che gli sta particolarmente a cuore, riecheggiando in questo la critica di un pittore da lui molto studiato, Marcel Duchamp, ostile all’arte puramente visiva e olfattiva o, come lui diceva, volatile come la trementina.
Jean Clair
Nel 1956, il quindicenne Jean Clair si ritrovò «in colonia» sul lago di Garda, le vacanze di chi non poteva permettersi la villeggiatura. Erano gente umile i Clair, la campagna prima e poi la periferia parigina come domicilio, il dialetto e poi l’argot proletario come lingua, la madre a fare «i mestieri nelle case», il padre «i lavori di fatica».
Il ragazzo però a scuola si era rivelato un portento e quell’estate, dunque, «alunno meritevole», Jean si stava annoiando a bordo lago: le «colonie marine», una via di mezzo fra il collegio e la caserma, non brillavano quanto ad allegria. La gita a Venezia che ne avrebbe sancito la fine, si era rivelata il solo e unico motivo di interesse in grado di bruciare la monotonia del soggiorno.
Veduta del Canale della Giudecca a Venezia
All’ultimo momento però la gita saltò e il ragazzo sentì montargli alla testa quel «sangue contadino e sangue proletario» che comunque ribolliva nel suo cervello di studente modello: «Ero furioso. Ero venuto per vedere Venezia e avrei visto Venezia» scrive Jean Clair in La part de l’Ange. Journal 2012-2015 (Gallimard, pagg.410, euro 26), miscellanea affascinante di critica d’arte e memoria, riflessioni esistenziali e letterarie. È un racconto che vale la pena di seguire, perché letto oggi, ciò che avvenne allora sembra incredibile.
Uscito all’alba dalla colonia, mentre tutti dormono, i sorveglianti come i suoi compagni, in autostop Jean arriva alle dieci del mattino nella Serenissima, ma a mezzogiorno, allertati da una telefonata, dei sorridenti carabinieri lo hanno già preso in custodia.
Palazzo Clary, Venezia
Poiché non è maggiorenne, lo portano alla Casa dei Minorenni, quella che oggi adesso è l’Accademia delle Belle Arti e prima era stato l’Ospedale degli Incurabili, un progetto del Sansovino, tanto per capirci… Viene messo in una piccola stanza, gli vengono date una dozzina di coperte per fare un materasso e «tre enormi panini», perché a digiuno dal mattino.
Il giorno dopo, l’appuntamento è al consolato di Francia, ma poiché la giornata è bella, e non c’è fretta, i carabinieri lo portano in motoscafo, a velocità di crociera, a fare un tour della città: dalle Fondamenta degli Incurabili, che sono alle Zattere, arrivano alla Punta della Dogana, entrano nel Canale Grande e lo ripercorrono a ritroso sino alla Stazione ferroviaria, rientrano poi dal Canale della Giudecca e depositano il ragazzo a Palazzo Clary, sede del consolato, ovvero a poche centinaia di metri da dove sono partiti.
Di fronte a un comportamento così squisito, il console non è da meno: secondo la legge italiana, gli spiega, puoi restare a Venezia ancora per 48 ore. Visto che alla Casa dei Minorenni hai già un letto, perché non ne approfitti? Di suo aggiunge cinquecento lire per le piccole spese, dei buoni-pasto per la mensa dei Ferrovieri e il biglietto di treno per Parigi. Nessuna ramanzina e una stretta di mano concludono l’incontro.
L’Italia degli anni ’50 era anche questa cosa qui, come del resto l’Europa, senza scomodare l’Erasmus, Schengen e la globalizzazione…L’amore di Jean Clair per il nostro Paese data da allora: crescendo, quella facciata cinquecentesca degli Incurabili che era stata il tetto italiano dei suoi quindici anni gli farà meglio capire la poesia dei dipinti di De Chirico, e con essa l’idea di un Paese più ascrivibile al segno di Saturno e delle ombre che a quello del Sole, delle spiagge e delle nudità dei corpi, l’idea di una sorta di eterno ritorno in cui la rivoluzione artistica si iscrive nell’etimologia stessa della parola, revolvere che vuol dire tornare a, per poi ripartire.
Se non si comprende la bellezza metafisica del paesaggio italiano, osserva, o la malinconia di una bella giornata d’estate, si ha dell’Italia un concetto sbagliato, che è poi quello che hanno gran parte dei francesi, per grossolanità o per miopia critico-ideologica.
Si deve proprio a Clair, e alla sua mostra Les Realismes entre Révolution et Reaction 1919-1939, allestita ormai quasi quarant’anni fa, se il ‘900 artistico italiano riprese lentamente il suo posto al sole. È «l’altra pittura» quella che Clair ha messo in evidenza, e che è l’esatto opposto del formalismo e dell’astrazione uscite criticamente vincenti, una pittura che «spettinando la guerra e descrivendo la potenza tecnica del nuovo mondo rivelava che ciò che dominava quest’ultimo erano le forme dell’inquietudine, del sogno, del rimpianto, della disperazione.
Quanti Dormiente, quante Donne al sole, quante nudità sognanti e assenti, la mano sinistra al mento e lo sguardo perso, in queste immagini messe al servizio della Rivoluzione fascista».
Scrive ancora Clair, a proposito di Mario Sironi, il principe della cosiddetta Pittura del Regime: «Il suo era un problema di estetica, non di propaganda: come unire la muscolatura antica e quasi romana degli operai, degli sterratori, dei contadini nudi sino alla cintola, con la nuova silhouette delle automobili in acciaio e dai colori chiassosi?».
Marcel Duchamp: Il grande vetro
Come era stato possibile insomma che «quest’arte del sogno del fantasticare, del riposo doloroso e del mistero in piena luce, avesse potuto svilupparsi sotto un regime arbitrario, muscoloso, tonitruante, senza però restarne sottomesso?». La part de l’ange non racconta solo questo amore per l’Italia, il suo popolo, la sua arte.
È anche l’elegia di un mondo scomparso: «Abbattere le frontiere, sopprimere i limiti, strappare le siepi sino alla radice significa desacralizzare uno spazio di cui la casa colonica, per la sua forma come per la sua funzione, era il cuore. Vuol dire consegnare insensibilmente il mondo al caos. È scucire un vestito che nel tempo era stato sapientemente tessuto, per mettere un corpo a nudo prima di consegnarlo ai bruti».
Opera di Mario Sironi
Andiamo incontro, dice ancora Clair nel su libro, alla sparizione dei libri e al disprezzo della storia, alla dispersione delle idee e alla dissipazione dei sentimenti, a un tempo senza tempo, un futuro senza avvenire, l’akedia degli antichi Greci, l’accidia malattia morale dell’anima, la noia di chi non ha più niente da fare e nessun dio in cui credere.
È anche per questo che insegniamo la bruttezza, delle abitazioni, degli abiti, delle opere d’arte: ci rassicura perché ci convince che non c’è più niente per cui valga la pena attardarsi, «niente da conservare o da rimpiangere e che dunque bisogna avanzare, avanzare sempre penando e sudando – quello che viene definito il Progresso. La bellezza fa nascere una nostalgia, un dolore a volte.
Parigi, quartiere Marais ingresso museo Picasso
La bruttezza ci trascina altrove, senza pensarci, senza dubbio verso la morte». Anche la rivoluzione elettronica, nota Clair, non è altro che «l’ultimo episodio della lunga storia della distruzione delle biblioteche…
Il disastro che si srotola sotto i nostri occhi è tanto più profondo perché avviene nell’entusiasmo di chi nutre con orgoglio questi nuovi autodafé per lasciare spazio alle potenze illimitate dei Big Data. Più nulla dunque da dare, prestare o scambiare, nulla di cui ci si possa ricordare. Niente più storia, né eredità».
Già conservatore del Centre Pompidou, direttore del Museo Picasso, direttore della Biennale di Venezia del Centenario, ideatore di grandi mostre (sulla malinconia, sul delitto e sul castigo…) Clair ha sull’arte moderna lo sguardo disincantato di chi ha visto tutto: «Non potevo immaginare che i musei, invece di essere un rifugio al riparo dal mondo moderno, significassero invece per me trovarmi nel cuore di un laboratorio dove meglio si leggevano i segni annuncianti il crollo della nostra cultura.
Nel silenzio dei quadri, lontano dai tumulti del secolo, l’osservazione delle opere di cui avevo la cura, mi informava nel modo migliore sul lento processo di decomposizione di cui il nostro mondo è diventato preda.
La storia dell’arte detta moderna era la storia della nostra propria fine. Invece di essere la storia di una liberazione, l’epopea dello spirito libero dal dovere di servire, la gloria dell’Uomo illuminato dai Lumi, non era altro che l’ultimo episodio di un nuova iconoclastia, allineando, di decennio in decennio, i sintomi più evidenti di un’auto-adorazione dell’uomo da parte dell’uomo, che si concludeva nella spazzatura o nell’imbecillità».
Siamo entrati così nell’epoca delle basse opere, divertissement non più di creatori romantici, ma di creativi contemporanei, «di quelli che, diceva Mathurin Régnier, pisciano nelle acquasantiere perché si parli di loro. Piscio, dunque penso». Incontinenza dell’io. Prostata delle civiltà stanche. Catastrofe.
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