TU VUO’ FA’ L’AMERICANO

3 Mar 2022 | 0 commenti

In oltre 60 anni di carriera, l’uomo di spettacolo più eclettico e amato d’Italia è stato moltissime cose ma il suo primo amore, la radio, continua a essere quello più grande. Uomo di molti talenti, nato a Foggia nel 1937, Renzo Arbore è stato autore e conduttore radiofonico e televisivo, musicista, cantautore, attore, sceneggiatore, regista e scopritore di talenti strampalatissimi. Ha esordito in Radio al fianco di Gianni Boncompagni con “Bandiera gialla”. 

Con lui, in questo tempo difficile segnato dalle malattie, dal Covid e dalle necessità per tutti di tutelarsi anche attraverso la non prossimità fisica, imbastiamo una “A Tavola Con” a distanza e, nel desinare, del tutto immaginaria: una licenza possibile con un uomo di realtà e di fantasia, di senso e di invenzione.

Renzo Arbore – 84 anni, nominato da Sergio Mattarella Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica – ha al telefono la voce squillante, ironica e cortesemente affettuosa: «Ho fatto parte della giuria di Sanremo soltanto una volta, nel 1968: vinse Sergio Endrigo con “Canzone per te” e fu ospite Louis Armstrong. Fra i brani di Sanremo, ho amato tantissimo “E se domani”, che venne poi cantato da Mina e che considero una ballad degna di George Gershwin e di Cole Porter».

Arbore con Gianni Boncompagni alla radio

«Se ci fossimo potuti incontrare a Roma, dove l’avrei portata a mangiare?», si domanda stando perfettamente al gioco: «Penso che saremmo andati a pranzo in una osteria popolare: la Taverna Trilussa, a Trastevere. Io amo molto la cucina romana. Sono pugliese, ho vissuto tanto a Napoli, mi trovo a Roma da una vita. Mi piacciono queste tre tradizioni e apprezzo quella abruzzese. Domenica, a casa, mi sono preparato il ragù per la pasta e ho mangiato il gattò di patate. Sicuramente, a tavola a Trastevere le avrei proposto di prendere come antipasto delle animelle, che sono appunto di origine abruzzese. Niente vino, invece: non l’ho mai apprezzato tantissimo. E, poi, per trent’anni ho fatto la pubblicità alla birra…».

Arbore, De Crescenzo, Melato

Conversare con Renzo Arbore è come giocare a flipper, il biliardino elettrico importato dagli Stati Uniti che tanto ha contribuito a spezzare la monotonia dei ragazzi e delle ragazze nella provincia e nella città italiane: ogni parola rimbalza e produce un suono, ogni traiettoria verbale va veloce e cozza provocando un ricordo, ogni pallina scintillante gira, gira e gira ancora, fino ad accendere una suggestione e ad attivare una emozione.

Arbore – figlio di Giulio, odontoiatra, e di Giuseppina («mia madre era una Cafiero, un ramo laterale della famiglia di Carlo Cafiero, il grande anarchico che aveva rotto con Karl Marx e con Friedrich Engels ed era diventato sodale di Michail Bakunin») – dopo l’infanzia e l’adolescenza a Foggia («come tutti i ragazzi della borghesia meridionale, presi la maturità classica nel liceo della mia città») si trasferisce a Napoli per seguire le orme universitarie paterne. Frequenta per un anno la facoltà di medicina, che abbandona per iscriversi a giurisprudenza, con l’idea di diventare magistrato: «Alla fine mi sono laureato con una tesi di diritto privato sulle servitù prediali, ho impiegato più tempo del dovuto perché, come diceva mio padre, “stavo sempre appresso alla musica”, e non ho mai fatto l’esame per l’ammissione in magistratura».

Roberto Murolo

A Napoli diventa amico di Sergio Bruni e Roberto Murolo innamorandosi della canzone napoletana («uno dei fili rossi della mia vita è stata la riscoperta e la valorizzazione di quanto era caduto nel dimenticatoio, la mia adesione alla antica canzone napoletana è stata assoluta, in tanti perfino a Napoli allora non ci credevano più»), dirige il Circolo napoletano del jazz e frequenta il club aperto per i militari americani dall’Uso, la United States Service Organization, in Calata San Marco, vicino al porto, dove suona come clarinettista jazz: «La leggenda vuole che il ragazzo della canzone di Carosone “Tu vuo’ fa’ l’americano” fossi io. In effetti, io a Napoli stavo sempre al club dell’Uso, ero totalmente immerso nel jazz, portavo blue jeans quando nessuno sapeva cosa fossero, avevo camicie americane, indossavo impermeabili che acquistavo dai soldati».

Arbore e Frassica a L’altra domenica

Dopo Napoli, Roma. «A proposito di Roma – dice Arbore – in questo nostro pranzo immaginario, io prenderei come primo i bucatini alla gricia, anche se a casa cucino sovente gli spaghetti alla carbonara. Consiglierei anche a lei di assaggiare questo piatto o, in alternativa, una amatriciana». Roma, dunque. «A Roma, all’inizio, vivevo in una misera pensioncina di via Rasella. Poi, con i primi guadagni, sono andato a convivere in appartamenti con studenti e artisti. Con le poche lire che avevo in tasca, ogni giorno compravo giornali e periodici: l’Unità, l’Avanti, Rinascita, Mondo Operaio, La Discussione, la Voce Repubblicana, il Popolo. Ho sempre avuto grande passione per la cultura politica. Non sono mai stato di sinistra. Sono sempre stato liberale: mi hanno segnato gli americani che ho visto liberare il Sud e che ho conosciuto nei locali notturni di Napoli».

«Il Festival di Sanremo del 1986? La leggenda vuole che lo avessi vinto io con “Il clarinetto”. In effetti, quel sabato sera di tanti anni fa, qualcosa di particolare accadde. Glielo racconto. Io, allora, scrivevo di musica sul Corriere della Sera e sul Radiocorriere TV. Per questa ragione avevo accesso alla sala stampa. Mi ero appena esibito sul palco. Non conoscevo ancora la classifica. Entrai una prima volta in sala stampa e, intorno a me, calò un silenzio di tomba: “Il clarinetto” era in testa. In quel silenzio, avvertii una sorta di gelosia non benevola da parte dei colleghi giornalisti. Poco dopo, tornai una seconda volta: ero sceso, in classifica, alla seconda posizione e venni accolto da un applauso fortissimo dai colleghi. Non ho mai saputo veramente che cosa fosse capitato. Presi però allegramente il secondo posto. Fu preferibile così: io ero reduce dal successo clamoroso di “Quelli della notte”. Ero già molto contento di avere rilanciato la canzone umoristica che, dai tempi di Renato Carosone, era stata accantonata dal Festival di Sanremo e dalla radio».

Roma è stata dunque l’approdo e il baricentro di una vita e di una professione che hanno unito la provincia e la città, l’Italia e il mondo: «Devo dirle che una delle mie maggiori soddisfazioni è la longevità dell’Orchestra Italiana che con i suoi sedici musicisti, a parte lo stop forzato della pandemia, in trent’anni ha tenuto 1.500 concerti, in Italia ma soprattutto all’estero», dice con quella particolare intonazione della voce che, nonostante sia permeata di emotività, non scade mai nei buoni sentimenti, ma che sta in equilibrio fra sentimenti buoni e leggerezza, ironia e pensiero ponderato.

Renzo Arbore con Orchestra italiana

Invece, il secondo piatto del nostro pranzo immaginario non può che essere, alla Taverna Trilussa, solidamente romano-romano: «Ah, guardi, di secondo io avrei sicuramente ordinato una coda alla vaccinara». Ma, a parte la licenza gastronomica in questo caso romanocentrica, i gusti di Renzo Arbore sono sempre andati verso la coniugazione delle differenze, l’incontro fra le alterità, la cordialità informata fra gli sconosciuti: «In effetti – spiega – la mia piccola missione è stata quella di fare conoscere chi non si conosceva. Mi sono spesso chiesto perché una persona di Agrigento non dovesse conoscere una persona di Asti. Una di Potenza una di Modena. O una di Cosenza una di Treviso. Ho provato a farlo, con meccanismi di racconto diversi, nell’“Altra domenica”, a “Indietro tutta” e a “Quelli della notte”. L’ho fatto anche con l’individuazione di alcuni talenti che, da regionali, potevano diventare universali: nel 1978 ho visto esibirsi in una piccola rassegna di Fiuggi Roberto Benigni e l’ho fatto diventare, nell’“Altra domenica”, l’autore di geniali, strampalate e lunari recensioni cinematografiche». La dimensione identitaria né greve né sterile né parodistica emerge anche nel racconto delle amicizie e degli amori che non ci sono più. E, ora, la voce di Arbore per la prima volta prima si increspa e poi, lievemente, si incrina. Perché anche lui conosce le parole di Osip Mandel’stam: «Ho imparato la scienza degli addii, nel piangere notturno, a testa nuda»: «Le tre persone che mi mancano di più sono Gianni Boncompagni, Luciano De Crescenzo e Mariangela Melato. Boncompagni era profondamente toscano, anzi aretino. De Crescenzo aveva una leggerezza napoletana delicata e divertente. Mariangela mi ha insegnato la dignità, lo studio, il gusto: il suo era un vero codice milanese».

Delicatezza, divertimento, dignità, studio, gusto. Il 28 marzo del 2006 Renzo Arbore ha tenuto all’Istituto italiano di cultura di New York una lectio magistralis, in un incontro organizzato insieme alla New York University, che ancora adesso lui rivendica con orgoglio: «Sono contro le storture create dall’ossequio eccessivo al mercato. E lo dico da liberale. La televisione che si fa violenta, sobillatrice e menzognera per aumentare a tutti i costi gli ascolti. I giornali che inseguono le tirature con gli scontri e i pettegolezzi. Il cinema che con la volgarità ricerca il successo al botteghino. Queste cose non mi piacciono. Purtroppo funzionano, ma invece di arricchire il pubblico, lo impoveriscono. Non vanno bene. Non fanno bene. Naturalmente ci sono delle eccezioni. Alcune in casa Rai. E, una delle più significative, è rappresentata da Radio Rai, che per me rimane il primo amore a cui si resta sempre affezionati. Devo riconoscere che, attraverso i nuovi prodotti tecnologici come l’utilizzo dei video e la connessione a internet e grazie ad alcuni bravi talenti, Radio Rai è una mia beniamina».

Ricomponiamo con la dimensione del gioco le amarezze della vita e la serietà delle cose: in fondo, lui ha fatto così in tante occasioni: «Mi chiede che cosa prenderei di dolce, in questo nostro pranzo immaginario? A me piacciono la pastiera napoletana e il panettone milanese. Ma, da quando sono invecchiato, i medici mi chiedono di mangiare i dolci con grande moderazione anche nei miei sogni. E, poi, niente più whiskino. Al massimo un amaro. E, alla fine, sì certo, un caffè», conclude Renzo Arbore, italiano del Novecento che con le canzoni e gli scherzi, il divertimento e il pensiero è riuscito in fondo a sciogliere il nodo di Eduardo De Filippo, del «Ah… si putesse dicere / chell’ c’ ’o core dice; / quant’ sarria felice / si t’ ’o sapesse dì! / E si putesse sentere/ chello c’ ’o core sente, / dicisse: “Eternamente / Voglio restà cu te!”».

Articolo di Paolo BRICCO Il Sole 24 Ore

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