Ampelio Bucci è un colto imprenditore agricolo, noto per avere valorizzato il Verdicchio. Per seguire la sua azienda passa parecchio del suo tempo a Milano, con l’entusiasmo di sempre, nonostante l’età avanzata. Nel libro L’infanzia infinita descrive gli anni della sua adolescenza, quando nella civiltà contadina di allora fra padroni e contadini c’era rispetto e amicizia e l’idea di appartenere ad una sola comunità.
La deliziosa biografia dell’infanzia di Ampelio Bucci ( L’infanzia infinita, Affinità elettive editore, Ancona) coincide con quella di un piccolo paese delle Marche, Montecarotto dove, come nel resto della penisola, l’autarchia imposta dal fascismo aveva involontariamente conservato pratiche ed usanze ottocentesche. L’aratro, ancora di legno, veniva tirato da due buoi ed era costruito a colpi di accetta, «come una scultura». I più poveri lo facevano tirare da due mucche. Per motivi misteriosi buoi e mucche di ogni località avevano sempre gli stessi nomi: Faurì e Galantì.
I mezzadri, che dividevano a metà il raccolto col proprietario dei terreni, erano coordinati dal fattore. Si presentavano in visita dal padrone con un dono: una gallina, un gallo o uova fresche e ricevevano una colazione a base di pane, prosciutto e salame innaffiati da un bicchiere di vino. Anche perché molti avevano fatto un lungo percorso a piedi.
In quel mondo ristretto spesso i cognomi venivano sostituiti da soprannomi o dal nome del padre come Pié (Piero) di Mastropaolo, un rustico falegname che costruiva anche i basti e le ruote dei carri. L’unica novità era stato l’ingresso del ferro e della ghisa che rendevano più solidi i chiodi delle presse per schiacciare l’uva. Facevano le loro prime, rare apparizione i trattori detti «a testa calda», ma la loro diffusione era stata arrestata dalle esigenze belliche della guerra d’Africa.
Si chiamava «nocetta» una postazione di caccia col richiamo. Ad attrarre la selvaggina erano degli uccelli chiusi in gabbia, tordi, merli, fringuelli. «Oggi un’attività del genere suona inconcepibile e sgradevole, ma allora quest’attenzione verso gli animali» non c’era ancora. La caccia che per i ricchi rappresentava un divertimento, per i meno abbienti era un modo per procurarsi la carne «che scarseggiava sulle tavole contadine», ma era necessaria per sostenere i lavoratori nei loro pesanti lavori.
Le provviste venivano conservate nelle «camere oscure», stanze senza finestre col pavimento coperto di patate a cui bisognava sempre togliere i germogli, mentre dal soffitto pendevano salumi, prosciutti e blocchi bianchi di lardo. Nell’oscurità si distinguevano appena le schiere di barattoli di vetro pieni di verdure sott’olio. Il bagno, di là da venire, era sostituito in ogni stanza da brocche e catini di ceramica e da un rudimentale, gelido gabinetto sul balcone.
L’evento più importante dell’anno era il raccolto del grano che riguardava metà delle terre. L’altra metà era riservata alle colture «di rinnovo», dall’erba medica al mais, prodotti destinati all’alimentazione del bestiame e a preparare il terreno alla coltivazione del grano nell’anno seguente. Al mercato del bestiame, gli animali in vendita erano messi al centro. Intorno giravano acquirenti e venditori, fattori, mezzadri, proprietari, commercianti. «Ogni trattativa durava tutta la mattina, con brusche interruzioni, riprese, passeggiate nervose».
La trebbiatura del grano e la nascita dei vitelli venivano festeggiate con un grande pranzo in cui ognuna delle donne esibiva i suoi piatti migliori. I prati venivano coperti da lunghissime tovaglie bianche, ma non era certo una cucina leggera. «Il piatto più importante erano le tagliatelle fatte in casa, con sugo d’anatra o d’oca, o con ragù di coniglio in bianco». Meno frequenti i «vincisgrassi», una specie di lasagne condite con fegatini e interiora o i passatelli in brodo profumati di noce moscata. Ai secondi erano riservate le «carni da cortile»: oche, polli, conigli in porchetta, piccioni ripieni.
La colazione del giorno dopo si basava soprattutto sulle frittate, dalle uova in trippa molto sostanziose alle frittate più morbide con la salsiccia, il pomodoro fresco o la cipolla. I salumi fatti in casa venivano mangiati con pane abbrustolito. La conclusione era il dolce caffè d’orzo servito in capaci cuccume. «I cibi erano tutti buoni, ma non è solo per questo che ricordo con tanto piacere i pranzi della trebbiatura. Mi piaceva sentirmi parte di una comunità, l’amicizia che c’era tra padroni e contadini».
Giuseppe Scaraffia per il Domenicale de www.ilsole24ore.com