Oltre a portarci libri imperdibili e ad aprirci l’America, quindi il mondo, Fernanda Pivano è stata una straordinaria donna del Novecento che ha amato un uomo, ne ha ammirati tanti, ne ha rimpianto qualcuno, ma è soprattutto alle donne che, da maestra riluttante, ha mostrato la libertà, la sua fatica quotidiana, la sua meraviglia complicata e necessaria, il suo essere orizzonte irraggiungibile ma a cui non vanno mai voltate le spalle.
«Sono stata una scema a non scoparmi Hemingway». Di Fernanda Pivano dovremmo sapere tutto, e quel “dovremmo” possiamo intenderlo almeno in un paio di modi. Se si è attraversato in parte il suo secolo lungo, un’idea del suo lascito la si ha. Se invece si è troppo giovani per averla potuta incrociare, è un concentrato di Novecento che può far capire molte cose di questi nostri anni – anche se lei non li ha visti.
In questa estate di legge Zan, di libertà messe in discussione, di MeToo sommerso o riaffiorante, di differenza tra sesso, genere e identità di genere da imparare per poi magari subito di nuovo confondere, lei — anche se era arrivata molte estati fa, il 18 luglio 1917, e se n’è andata qualche estate fa, il 18 agosto 2009 — ci avrebbe forse sciolto qualche dubbio. Oppure ci avrebbe spiazzato ancora di più, con una sorprendente mancanza di verità, col suo essere lei stessa una contraddizione, e quindi stimolandoci a vigilare sulle nostre certezze, anche le più fresche.
Probabilmente ci saremmo accostati a lei come a un oracolo laico, in lei identificando giustamente il prototipo dell’indipendenza e dell’emancipazione e della cultura femminili. Lei che fu l’interfaccia ineludibile dei più grandi intellettuali dei suoi decenni. Lei che fu decisiva nella sprovincializzazione dell’Italia, aiutata a smaltire la sbornia ventennale del «popolo guerriero» con l’ideale opposizione dei poveri diavoli di Spoon River, antieroi stanchi, quindi eroi autentici. Pivano fu centrale in tutto questo, ponte tra almeno due generazioni di italiani e il mondo, lei a riconnetterci con la civiltà.
Ma una donna così, forgiata dall’avere ascoltato — di nascosto, alla radio, accanto a Pavese e Vittorini — il discorso sulle Quattro Libertà di Roosevelt, non fu mai completamente libera. E una donna così, che pure conobbe uomini eccezionali e avrebbe potuto averli con uno sguardo, amò incondizionatamente un uomo solo, che inseguì e poi ebbe e poi perse, soffrendone fino alla fine. E fino alla fine chiamò disperatamente a sé.
Ettorino Sottsass e il marchio del padre
Quell’uomo fu Ettore Sottsass, per Nanda “Ettorino” ma in pubblico “Sottsàss”, con l’accento rigorosamente sulla “a”, il contraltare materiale e fattuale della curiosità intellettuale di lei, il grande designer, o “controdesigner”, che tanto contribuì a riaprire gli occhi del mondo sulla bellezza italiana, con mille oggetti diventati icone e quella facilità di tratto che la incantava, mai avrebbe smesso di osservarlo con la matita in mano.
Nanda Pivano fu prigioniera per scelta — l’ossimoro è voluto, e riassume questa storia — di quell’amore e di un’educazione altoborghese, e non si liberò mai né dell’uno né dell’altra. Per questo rimpianse gli anni con lui, tantissimi — rimpianse di averli perduti, rimpianse che fossero finiti — ma anche il fatto di essere stata «una scema a non scoparmi Hemingway».
Quella frase Enrico Rotelli la rivela dopo qualche istante di concentrazione, perché una delle cose che ha imparato da lei, lavorandole accanto negli ultimi anni, è scegliere bene le parole, capire chi ti ascolta e cosa ti sta chiedendo.
«Nanda ha lavorato molto per la libertà sessuale, ma quella degli altri. Lei libera non lo era, non c’è mai riuscita. Era vincolata al suo retaggio vittoriano, come diceva lei stessa».
Un retaggio che veniva da lontano, le origini scozzesi, la scuola svizzera, il padre banchiere genovese. Ecco, il padre: una figura che l’ha marchiata, un uomo dominante, «un possessore compulsivo di donne, che incontrava quotidianamente nel suo ufficio», spiega Enrico. Quel modello l’ha segnata e quel modello l’ha indirizzata inesorabilmente nel rapporto con gli uomini. «L’uomo ci prova, la donna sceglie se resistergli».
Vai a capire se poi è davvero una scelta o l’effetto di un tabù schiacciante: il punto è che possono esistere accanto, resistere entrambe le cose: per Fernanda Pivano tutta la vita fu così. E quindi la ragazza che aveva sfidato un interrogatorio nazista per aver tradotto di nascosto Addio alle armi, e che «fu tra le prime — fin dagli anni 40 — a portare i pantaloni e i capelli corti, tra le prime a divorziare e a tradurre testi stranieri», incarnò per tutta la vita anche la visione opposta, quella della «donna sottomessa», che accetta i tradimenti dell’uomo che ama e mai lo tradisce, che è corteggiata da seduttori saltuari o seriali con ottimi argomenti — belli, intelligenti, spesso entrambe le cose — ma a nessuno cede.
«O scrivo o faccio la puttana. insieme è troppo faticoso»
Giovanissima, per esempio, si era fatta sedurre solo intellettualmente dal suo maestro Cesare Pavese, che «in lei sperava per avere una casa e un amore», scrisse Davide Lajolo. Celebre è la sua risposta a Neal Cassady, il classico bel tomo tra gli scrittori Beat, che dopo averci provato e riprovato le chiese frustrato «non bevi, non fumi, non scopi, ma allora cosa sei venuta a fare?» e si beccò una frase folgorante, che andrebbe analizzata parola per parola: «O scrivo o faccio la puttana. Insieme è troppo faticoso».
Ma perché Fernanda, verrebbe da chiederle oggi, perché loro, quei grandi uomini, potevano fare gli scrittori e i puttanieri e tutti ad applaudirli, e tu invece dovevi scegliere se lavorare o divertirti, salvo poi pentirti in tarda età di «non aver scopato Hemingway»?
La risposta la dà Antonio Troiano, il capo della Cultura del Corriere, memoria storica di questo giornale e che con Rotelli è l’altro testimone perfetto della grandezza e delle contraddizioni pivaniane, essendole stato amico per decenni.
«Nanda era bella e ha difeso la sua integrità. Voleva essere riconosciuta per quello che era, una studiosa di letteratura americana», dice Antonio. La presunta auto-repressione sessuale, insomma, era un retaggio ma anche una necessità, perché se fosse finita sui giornali come preda/predatrice di scrittori anziché loro intervistatrice e basta, sarebbe fallita la doppia missione che si era data: portare la loro (contro)cultura in quel villaggio che era l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, e farlo nonostante fosse una donna, perché per le donne quel mestiere semplicemente non era previsto: e infatti, spiega Antonio, «Nanda ha fatto una fatica enorme a difendere la sua professionalità, si è dovuta impegnare quattro volte gli altri», quando «gli altri» erano un plurale rigorosamente maschile.
Ed è con questa credibilità — conquistata «con chilometri di libri e di viaggi, leggendo tutto e andando a incontrare di persona tutti» — che «ha messo il Corriere al centro del dibattito culturale, dandogli l’immagine di giornale libero e rispettoso del lavoro degli scrittori». Il tutto «con un’umiltà e una gratitudine continue verso il giornale: era una che ti ringraziava — lei, Fernanda Pivano — per averle pubblicato un pezzo, senza mai pressarti prima. Non era consapevole di quanto fosse brava».
Quanto alla libertà, Antonio ricorda il racconto di una telefonata tra Allen Ginsberg e una giornalista cui Nanda aveva assistito, e in cui «l’aveva visto alterarsi a poco a poco, lui così mite e gentile. Alla fine era sbottato, “lei non ha capito che io ho lottato tutta la vita per l’affermazione della libertà, ma mi sono reso conto di aver perso”. Nanda aveva poi provato a consolarlo ricordandogli le cose meravigliose che aveva scritto e fatto da poeta e campione dei diritti gay, ma lui le aveva risposto che la strada era più lunga di quanto potesse immaginare». Valeva per un omosessuale, e valeva per una donna.
Ogni consolazione fisica dell’esistenza
In una ricognizione dell’animo pivaniano attraverso uomini che l’hanno conosciuta bene, non può però mancare lui, Ettore Sottsass, che prima di morire — la precedette di un anno, nel 2007 — ha lasciato un’autobiografia magnifica, scritta di notte, in cui la loro storia è raccontata nell’essenza, con frammenti che sembrano lampi.
Lui, Sottsass, l’apparente elisione tra donna libera e vincolata la spiega coi concetti di indipendenza e controllo, architravi dell’esistenza di ogni italiana audace dal Dopoguerra in poi: «Nella rivoluzione culturale nella quale Fernanda era immersa anima e corpo esisteva un postulato che era, come tutti i postulati, indiscutibile. Anzitutto prevedeva un nuovo stato indipendente della donna nella società, non conquistato con i sistemi della seduzione arcaica, ma con una specie di continuo controllo e invenzione della propria condizione etica. Un atteggiamento del genere, basato appunto sul controllo, significava tenere la distanza, una vasta distanza, da ogni partecipazione o consolazione fisica dell’esistenza».
Si erano conosciuti per telefono
Insomma, Ettore l’aveva capita perfettamente, e per questo non sorprende che nella loro storia durissima e meravigliosa si concentrino tutte le lacerazioni di Nanda, la libertà come cifra di una vita e la sua irraggiungibilità.
Si erano conosciuti prima della guerra, con una telefonata che lui racconta così: «Buongiorno. Mi chiamo Fernanda Pivano, sono laureata in lettere e filosofia, ho studiato pianoforte per otto anni, ho preso il diploma e adesso organizzo i concerti del GVF al conservatorio. Vorrei mettere in scena un’opera del Cinquecento. Poi le spiego meglio. Mi hanno detto che lei è molto bravo a disegnare scenografie e volevo sapere se le poteva interessare».
Si videro e lei non smise più di amarlo, lui ci mise un po’ a cominciare. Lei ad accoglierlo al rientro dal fronte jugoslavo e a nasconderlo nella casa del suo medico di famiglia. Lei a chiedergli due volte di sposarla, dopo la guerra. La prima lo trova «totalmente impreparato». Lei gli spiega: «I miei vogliono che io mi sposi. Sposerò un ufficiale americano che conosco. Lavorava con me alla radio. Andrò a vivere a Roma». Lui: «Non ho detto niente. Non avevo niente da dire. Una pietra mi è caduta addosso».
Il segreto di una vita
Quel primo matrimonio resta un mistero per tutti, perché lei non ne ha mai più parlato. Un mistero il marito, un mistero il divorzio. «Sacra Rota», immagina Enrico Rotelli, anche perché altri modi non c’erano. Sottsass racconta il nuovo incontro così: «Mi ha detto che stava divorziando e che sarebbe tornata a casa a Torino e se avevo ancora voglia di stare con lei. Le ho detto che mi sarebbe piaciuto molto, e dopo qualche mese è stato così».
Nel 1949, il matrimonio con rito civile a Torino, poi in treno a Milano, «il nostro viaggio di nozze» nella città che sarebbe diventata la loro base per il mondo.
Ma, fin dal primo momento, entrambi hanno l’esatta percezione di cosa li attendeva. Il racconto di Sottsass trasmette una lucidità brutale: «Sono entrato nell’ingresso blu e rosso della nuova casa tenendo in braccio la sposa Fernanda, poi l’ho fatta scivolare adagio perché mettesse i piedi per terra. “Eccoci qui” le ho detto, e senza neanche accorgermene mi sono messo a piangere. Fernanda mi ha chiesto: “Perché piangi?”. Non sapevo, o forse sì.
Le ho risposto: “Mi è entrato di colpo nella testa il pensiero che adesso dovrò vivere con te tutta la vita. Scusami”. Scusarsi non serviva. Fernanda non ha detto niente, ha sorriso. Era un bel sorriso, ma penso che stesse molto male, malissimo. Così, con un sotterraneo, inconscio, impercettibile senso di claustrofobia è cominciata la mia vita con Fernanda. Una vita fantastica, alta, senza cadute nel bene e nel male, andando di qua e di là curiosi e sempre sperando».
Un impercettibile senso di claustrofobia
È così che due persone eccezionali comunicano in modo trasparente le difficoltà classiche di una coppia, nel 1949, l’indisponibilità di lui alla monogamia, la disponibilità di lei a subire anche i tradimenti. Il modello è rovesciato dal fatto che è lei il pilastro materiale, lei a mantenerlo mentre lui si avventura nel mondo del design industriale, lei a sgrezzarlo nei circoli culturali milanesi e con la passione dei viaggi. Prima Parigi, dove da sconosciuti vanno da chiunque — la moglie di Kandinsky, Brancusi, Kenzo, Paco Rabanne, tutti ad accogliere nei loro studi quei due giovani italiani pieni di vita — poi finalmente l’America, dove Nanda incontra gli scrittori, Faulkner, Carver, Dos Passos, Miller, Mailer e soprattutto quelli della Beat che segneranno la sua vita, Ginsberg e Kerouac su tutti. In quella fase, «in fondo la vita era bella. Stavamo penetrandola, eravamo forti, luminosi, contenti e non avevamo paura di niente; forse avevamo paura soltanto della nostra fortuna di essere giovani».
Ecco, quella fortuna, consumandosi nel tempo, li avrebbe divisi, la gioventù si sarebbe trasformata in rimpianto e maledizione. Un giorno, molti anni dopo, incrociano una coppia giovane in aeroporto, «e Nanda ha detto: “Che bella ragazza”. Ero soprappensiero, forse pensavo a lei o forse pensavo nel vuoto e credo di aver risposto: “Beato lui”. Mi era sfuggito, non lo pensavo, ma per il cuore di Nanda deve essere stato come una pugnalata». Il racconto della fine è altrettanto tagliente: leggerlo è soffrire.
Nanda, malata di polmonite, «è molto pallida nel letto, stanca, e piange, piange disperata quando le viene addosso la certezza che la felicità passata, la dolcezza, la speranza, la voglia di fare, le parole, i viaggi, i sorrisi, e tutto il toccarsi, aspettarsi, cercarsi, dirsi, confessarsi, domandare, subire, rinunciare, dare, sentirsi insieme, è tutto finito, non tornerà più, svanito, svanito come un profumo svanisce nell’aria». Nei litigi, «mi rovescia addosso un muro di accuse, mattone su mattone, per colpe antiche, recenti, grandi e piccole. Resto senza parole, resto immobile con le mie colpe da un lato e con il paesaggio della sua vita devastato per sempre e — questo lei, Fernanda, non lo accetta — anche quello della mia».
A sconvolgerli, i due paesaggi, è il fatto che lui, a 57 anni, è capace di «innamorarsi come un cretino» e la lascia per una giovane artista catalana. Il divorzio arriva dopo 27 anni di matrimonio quando non c’è più bisogno della Sacra Rota, è diventato legge per le battaglie di donne come Nanda. Da quel momento, lei sviluppa una sorta di misoginia intermittente. Ma la parte più importante è «intermittente». Racconta Rotelli: «A parole odiava tutte le donne, ma quando le conosceva le ammirava moltissimo. Più giovani e carine erano, più la facevano soffrire perché le ricordavano le donne che le avevano tolto Ettorino. Ma poi spesso ne diventava amica e consigliera».
Il sentimento era sempre ambivalente. Ancora Rotelli: «Quando arrivavano giovani colleghe a intervistarla, lei non mancava di ricordare a tutte che la loro libertà era il frutto delle sue lotte e del suo lavoro: “Se potete vestirvi così, in jeans o in minigonna, se potete scopare — sì, è un verbo che usava spesso — lo dovete ai miei amici scrittori, alla rivoluzione dei costumi e del sesso che hanno portato nel mondo”. E poi aggiungeva puntualmente: “Voi non dovete avere i rimpianti che ho avuto io, come con Hemingway”». Però mai debordare, e pazienza se il problema è proprio capire qual è, il bordo. Quello che non le piaceva era «l’atteggiamento esageratamente provocante. Non lo considerava autentico. Aveva adorato e praticato il teasing americano», l’ammiccamento misurato, il flirtare raffinato.
Il dito bagnato di whisky sul bordo del bicchiere
Insomma, questa donna che «preferiva la compagnia maschile», che per tutta la vita aveva conosciuto, accettato e considerato la norma «il modello del maschio che ci prova, perché così erano stati tutti i maschi della sua vita, il padre, il marito, gli amici», e che del Bukowski da tutti descritto come un arrapato impunito diceva «a me ha regalato una rosa», probabilmente, dice Enrico, non avrebbe capito il MeToo (mentre non avrebbe esitato a sostenere Black Lives Matter (le vite dei neri contano, ndr).
Non avrebbe forse raggiunto i livelli espressivi di un’altra grandissima come Natalia Aspesi — «Se si incontra un maschio femminista, tirare su le mutande e scappare» — però «le avrebbe dato fastidio l’estremismo», come le aveva dato fastidio certo «femminismo rancoroso» degli anni Settanta. Una femminista classica, d’altronde, non avrebbe forse capito lei, il suo amore infinito e incondizionato per “Ettorino”, l’averlo aspettato sempre, nonostante tutto. Ancora nel 2004, da una stanza del San Raffaele dov’era stata ricoverata precipitosamente dopo un viaggio a New York, gli diceva «quando vuoi tornare io sono qui, ti aspetto», e l’ha aspettato fino all’ultimo giorno. Lui non è tornato «ma l’ha sempre aiutata, anche dopo la separazione», ricordano sia Troiano sia Rotelli, andando oltre gli alimenti, a sua insaputa.
Ma è possibile che nessun altro uomo sia riuscito a prendersi spazio in quell’anima? «Io credo che fosse innamorata di un amore tenero per Jack Kerouac», rivela Antonio Troiano. Un amore protettivo, che anche nelle pagine più impervie di On the Road vedeva «cose meravigliose, perle». E quando tutti lo facevano bere lei gli prendeva il bicchiere e glielo riempiva d’acqua, «e gli passava il dito bagnato di whisky sul bordo», aggiunge Enrico, in un inganno fatto di premura. Premura materna, certo: «Lo chiamava Ti Jean, come lo chiamava sua madre».
Alla fine, l’amore unico è stato quello in cui si è autoreclusa. Ma è stata una scelta, che come ogni scelta combatte coi retaggi e convive coi rimpianti: non per questo è meno libera. Ha i limiti che ogni libertà umana incontra o si dà. Tutti abbiamo una parte d’identità ereditaria e una elettiva. L’amore di Nanda per Ettore fu frutto di entrambe.
Ecco, oltre a portarci libri imperdibili e ad aprirci l’America, quindi il mondo, Fernanda Pivano è stata tutto questo, una straordinaria donna del Novecento che ha amato un uomo, ne ha ammirati tanti, ne ha rimpianto qualcuno, ma è soprattutto alle donne che, da maestra riluttante, ha mostrato la libertà, la sua fatica quotidiana, la sua meraviglia complicata e necessaria, il suo essere orizzonte irraggiungibile ma a cui non vanno mai voltate le spalle.
Articolo di Gianluca Mercuri per Sette del Corriere della Sera
Segue il video dell’intervista di Fernanda a Kerouac. Lo scrittore americano è visibilmente “bevuto”. Il video è, a suo modo, un documento di quell’epoca in cui spesso infelicità personale e ribellione sociale annegavano in un bicchiere di alcool. Ecco un commento che potrete leggere anche su Youtube: “Eccoli qua: il signor libertà e la signorina anarchia. Che bello quando la poesia non prendeva il potere ma ci sputava sopra! Kerouac, il magnifico e struggente disperato e la Pivano, la ribelle con grazia.”