Io, confesso, odiavo Fabrizio Corona. Perché lo consideravo il mio opposto: io una vita da scrittore misantropo, chiuso in casa a scrivere le mie opere, fuori da ogni salotto letterario, lui dentro un mondo di paillettes e gossip e vita mondana con un unico valore: fare soldi. Ebbene, mi sono ricreduto. Come? Leggendo il suo libro Come ho inventato l’Italia, appena pubblicato da La Nave di Teseo, e cioè da Elisabetta Sgarbi, che ha capito prima di me ciò che io ho capito ora.
Insomma, questo libro è molto più vicino a me scrittore di quanto lo siano i vari romanzi ogni anno premiati e candidati al Premio Strega, tutte minestrine soporifere e sociali che parlano di una società che non conoscono, quella inventata dagli intellettuali, dai letterati con la puzza sotto il naso, e non c’è cosa più noiosa di un intellettuale che parla della società.
Per cui ho letto il libro di Corona come se fosse un romanzo, anche perché è talmente romanzesco quello che racconta che è difficile non leggerlo così, bisognerebbe farne una serie su Netflix. Anzitutto è scritto benissimo, altro che i Carofiglio, i Cognetti, gli Albinati, i Piccolo, le murge, le parrelle, gli impiegati del politicamente corretto e del narrativamente inutile. Corona ha fatto della sua stessa vita un romanzo, e se l’è scritto da solo, appena uscito dal carcere dove dovrà tornare (minchia, danno più anni a chi ha ucciso qualcuno che a Corona per delle foto), e quando inizi a leggerlo non riesci a staccarti.
Non tanto perché sia vero quello che scrive, sebbene sia anche vero, ma non è questo il punto. Ciò che mi avvicina a Corona è che lui sta al sistema del gossip quanto io sto alla letteratura, esiste per farlo saltare, pur facendone parte, ha il coraggio di mettersi in gioco completamente, e in questo gioco è lui a vincere, perché è vero, perché in un mondo di ipocriti lui è sincero e l’ipocrisia altrui è il suo business.
Inoltre, cosa non trascurabile, non risparmia se stesso, come diceva Paul Valéry prende a calci gli altri ma non di più né di meno che se stesso, come nella copertina dove sono coperte solo le sue parti intime, con un biglietto da cento euro, che farà inorridire i benpensanti anticapitalisti. Delirio di onnipotenza, per carità, a cominciare dall’incipit: «Innanzitutto, io sono Dio. Tu che leggi, alza la testa dalla pagina. Vicino a te c’è una finestra? Che piano è, il terzo? Il quinto? Bene: se io mi buttassi di sotto non mi succederebbe nulla. Tu non farlo, tu sei mortale». Con il contrappunto delle conversazioni con la mamma, formidabile invenzione letteraria (sicuramente anche reale, ma che importa?) che tenta di riportare il nostro protagonista alla realtà. Ma probabilmente sbaglia la mamma.
Mi sono sempre vantato di non avere una privacy, dei miei segreti più intimi sono stato io a scriverne nei miei romanzi, ma Corona si muove, nella vita e nel libro, in un universo di gente che vive per l’immagine e che ha paura della propria realtà, e sprofondando in questo mondo lo rende un business, riesce perfino a organizzare una vendita delle proprie foto in carcere, rendendo la propria immagine una fonte di guadagno.
Ha uno spirito da Pablo Escobar, ma non è criminale come Pablo Escobar, alla fine è un vendicatore.
Avete presente l’Italia che vi racconta Roberto Saviano, con quel piglio da prete moralizzatore, che dopo due pagine vi addormentate, perché non c’è nulla di più noioso di un moralizzatore? Il libro di Corona, che per me è un romanzo, nel senso più alto del termine, è fiction che coincide con la realtà ma lo leggo come fiction, è un capolavoro di teatralizzazione di se stessi, di narrativa, e anche di lettura di un grande pezzo della società italiana.
È perfino morale, non moralistico ma morale, perché non c’è niente di più morale che non nascondersi. Ragione per cui mi hanno sempre fatto sorridere le paranoie delle persone sulla privacy, perfino le resistenze quando si parla di tracciarle per sconfiggere una pandemia: ma cosa avete da nascondere, visto che mettete tutto su Instagram? Everybody lies, diceva Doctor House, e nella società dello spettacolo ancora di più, e Corona ne è la nemesi.
È spavaldo, strafottente, talvolta anche fragile, sentimentale, commovente, dissacrante, sincero fino all’inverosimile. La mia iniziale antipatia è diventata una simpatia spassionata. Leggete questo libro, che spero sia candidato dall’editore al Premio Strega, premio di mediocri ipocriti e letterati parrucconi che merita un riscatto, perché in una società di ricattabili, mi piace da morire questo eroe ricattatore, che ha fatto della sua vita votata al denaro un’opera d’arte.
www.massimilianoparente.com